lunedì 15 aprile 2013

Politica, le relazioni nel partito: arma a doppio taglio per la comunicazione elettorale.

La comunicazione politica italiana andrebbe affrontata su due livelli.
Il primo riguarda la sfera pubblica. Ed è quello su cui tutti i consulenti in comunicazione generalmente sono concentrati. Gli addetti stampa, i portavoce sono lì per consigliare come dire cosa e a chi. Per lo più attraverso i mezzi di comunicazione più comuni. 
Il secondo livello è solitamente poco considerato dai professionisti della comunicazione. 
Riguarda infatti la gestione delle relazioni e della comunicazione interpersonale all'interno della sfera politica o istituzionale. 
È certamente capitato a molti di doversi confrontare con scelte di comunicazione pubblica condizionate, per dirne una, da "quel che può pensare il collega dello stesso partito" e le conseguenze che ne potrebbero derivare. Questione di equilibrio tra le relazioni che è necessario evidentemente mantenere. 
Non v'è dubbio che sia importante conservare la fiducia di entrambi gli interlocutori (l'elettore e il collega): il primo perché è colui da cui dipende l'acclamazione pubblica e, dunque, il voto; l'altro per il successo del gruppo politico di appartenenza e della propria carriera.
La soluzione più agevole sta nel saper gestire entrambe le attività di comunicazione nella più assoluta franchezza. Cosa non facile per il politico italiano, ma certamente fruttuosa per il proprio interesse, quello del proprio partito e del progetto politico condiviso.
Gestire le relazioni interne, adottare una strategia di comunicazione fondata su ascolto, trasparenza e fiducia sostiene la condivisione degli obiettivi ed i messaggi trasmessi al pubblico diventano inevitabilmente più incisivi, coinvolgenti ed efficaci. Il gruppo, sentendosi coinvolto, funge da cassa di risonanza. È opportuno però che ogni caso venga affrontato singolarmente, con l'affiancamento di consulenti specializzati anche sui meccanismi relazionali. 
È noto tra l'altro che nel nostro Paese le relazioni all'interno di uno stesso partito di fatto oggi sono tutt'altro costruttive. Entrano in gioco rivalità, interessi personali e competizione. 
Ma laddove le relazioni umane trasparenti prendono il posto di sotterfugi e stratagemmi improvvisati per sostenere solo il proprio personale tornaconto i risultati possono essere strabilianti. L'immagine del partito e quella di ciascun rappresentante ne guadagnerebbe nei confronti del pubblico e dunque dell'elettorato. 
Infine, anche il nostro consulente in comunicazione avrebbe una qualità di vita decisamente migliore.




venerdì 5 aprile 2013

Staminali e Sofia. La scienza contro la mobilitazione mediatica. Un problema di comunicazione?




Il monito di Salvo Di Grazia, medico e blogger de Il Fatto Quotidiano, è chiaro: "Staminali, la scienza impari a comunicare la speranza". 

Che l'autore riconosca la necessità di un buon apparato comunicativo a sostegno del settore medico scientifico non può far altro che piacere. Una buona o cattiva comunicazione è determinante per l'esito di qualsiasi impresa. Figuriamoci quando si tratta di malattie gravi, di bambini, di casi di vita o di morte.

Credo che avere la possibilità di accedere ad informazioni sicure, autoritarie e concrete in campo medico-sanitario sia un diritto fondamentale per ciascun cittadino

Sofia è una bambina affetta da una malattia degenerativa letale, il cui caso è venuto a galla grazie al servizio giornalistico di Giulio Golia, delle Iene, trasmissione televisiva d'inchiesta e intrattenimento. 

L'unica possibilità di sollievo per la piccola Sofia sono le iniezioni di cellule staminali. Che non si sa bene che effetto avranno perché la sperimentazione scientifica non è ancora terminata. Magari non la salveranno. Ma per ora sono l'unico metodo per tenerla in vita ed ottenere perfino piccolissimi miglioramenti. I dati sono empirici ma basati sugli effetti osservati su un unico caso giorno dopo giorno e non sono certo sufficienti a fornire le statistiche necessarie ad approvare una cura.

Eppure, la sola alternativa è la morte. Questo concetto è stato espresso in maniera molto chiara da Golia fin dal primo servizio dedicato a Sofia. Che non ha mai messo in dubbio la necessità e l'importanza di un ricerca scientifica. Ha avuto cura e premura nel sottolinearlo. 
Ed è un dettaglio che per me fa la differenza tra professionisti e ciarlatani.

Senza questa premessa, come professionista, non avrebbe mai potuto chiedere al governo e all'opinione pubblica di mobilitarsi per permettere che venissero concesse le iniezioni a Sofia. 

Sono d'accordo con Salvo Di Grazia quando sostiene che "non possiamo lasciare il futuro (non solo sanitario) dei nostri figli, alle scelte fatte “per acclamazione” o peggio in base agli ascolti televisivi"
Non credo però che una simile osservazione sia pertinente a questo caso. 

C'è effettivamente un problema di comunicazione nel mondo scientifico. Ma non è rispetto all'emissione di informazioni. Lo è rispetto alla ricezione.

Quando in un evento comunicativo uno dei due protagonisti non è pronto ad ascoltare la conseguenza minore che può verificarsi è che si generi un malinteso. Cosa che credo sia avvenuta tra il giornalista e i medici.
È necessario che la ricerca scientifica ed i suoi rappresentanti abbiano autorità assoluta nel loro settore. Non è compito di giornalisti né dell'opinione pubblica decidere quale cura sia opportuna per un paziente. 

Ma quale rischio più grosso della morte avrebbero potuto correre Sofia e i malati nelle sue condizioni assumendo cellule staminali? Questo concetto è arrivato a me come pubblico televisivo.

Non sono un medico ma credo di poter dire con una certa sicurezza che conseguenza più grave del decesso non esiste

Suppongo sia per questo che tutti si sono mobilitati per Sofia pur non avendo alcuna autorità medico-scientifica. Per lo stesso motivo, infine, credo, le siano state concesse le cure. 
E non perché il suo caso ha fatto commuovere l'Italia attraverso una trasmissione televisiva, come certamente è accaduto. Ma non è stata questa la ragione per cui le sono state concesse le cure.


mercoledì 3 aprile 2013

L'Aquila. La comunicazione può uccidere. Condannata la Commissione Grandi Rischi.

Un lettore mi ha segnalato il caso, che trovo molto interessante ai fini dell'analisi delle conseguenze che una cattiva comunicazione o una comunicazione non strutturata strategicamente, può provocare.
Spesso non ci rendiamo conto di quanto siano importanti, e in alcuni casi perfino gravi, queste conseguenze. Perciò è importante rilevare i casi più esemplari.

Quattro anni fa, il 6 aprile del 2009, si scatenava in Abruzzo uno dei più disastrosi terremoti della storia italiana più recente.
Da subito l'opinione pubblica si è chiesta se un simile evento avrebbe potuto essere previsto dagli esperti. Certamente, nessun terremoto può essere previsto. La gente però aveva bisogno di essere rassicurata. Ed è stato quello che ha fatto la Commissione Grandi Rischi, secondo il giudice Marco Billi, il quale ha condannato i componenti di quella commissione, lo scorso gennaio, per false rassicurazioni.

La Commissione aveva dato alla gente quello di cui in quel momento aveva bisogno: rassicurazioni.

Il punto è che quelle rassicurazioni non erano fondate su dati reali.

Uno dei principali criteri su cui deve basarsi qualsiasi evento comunicativo, per avere esiti positivi e produrre successo a tutti i livelli è la verità*. Non la verità nuda e cruda. Ma quella che corrisponde a ciò che, in questo caso specifico, gli studiosi erano in grado di dichiarare per le informazioni concrete di cui erano in possesso. Poteva trattarsi di dati, statistiche ma non, certamente previsioni.

Che fossero rassicuranti o disastrose, gli esperti della Commissione non avrebbero potuto rilasciare nessuna dichiarazione in merito a come la terra si sarebbe comportata. Quello che poi è accaduto è che la terra ha tremato ancora. Portando morte e distruzione.

Il caso è tornato a galla con la sentenza dello scorso gennaio e la successiva pubblicazione del libro di Antonello Ciccozzi: Parola di Scienza - Il terremoto e la Commissione Grandi Rischi. Un'analisi antropologica (DeriveApprodi), un giovane antropologo nominato consulente della Corte che ha giudicato la Commissione. 

«La diagnosi fatta dagli esperti - precisa l'antropologo - ha avuto effetti disastrosi perché, grazie al potere persuasivo dell'autorità della scienza, ha prodotto una rappresentazione sociale rassicurante che ha pervaso il senso comune, riducendo la percezione del rischio e causando, insieme alla vulnerabilità degli edifici, la perdita di vite umane».

Lo studio di Ciccozzi è stato decisivo nella formulazione della sentenza. «I pm Fabio Picuti e Roberta D'Avolio - dichiara l'autore in un articolo di Repubblica - hanno deciso che per comprendere questa vicenda era necessario definire come la diagnosi fornita dagli esperti avesse interagito con la cultura antropologica del luogo. E alla fine anche il giudice ha accolto quest'interpretazione. Nessuno si aspettava la condanna, che poi c'è stata».

Un secondo errore è stato poi fatto dall'opinione pubblica. L'idea che tutti hanno avuto è che la Commissione Grandi Rischi fosse stata messa sotto accusa per "mancato allarme" e cioè per non aver previsto il terremoto



«Cinquemila scienziati - spiega Ciccozzi - hanno firmato un appello contro l'idea che si processassero degli scienziati per non aver previsto un terremoto. Un appello così lo avrei firmato anch'io, ma nella realtà quell'appello è una mistificazione. È bene ripeterlo: il processo non era per non aver previsto il terremoto, ma per aver previsto che non ci sarebbe stato nessun terremoto, non per "non aver allarmato" ma per aver rassicurato».



*(Troverete riscontro di una possibile struttura di un piano di comunicazione nel mio manuale di prossima pubblicazione per AbelBooks Come costruirsi una strategia di comunicazione di successo).