domenica 24 febbraio 2013

Elezioni, la prima a perdere è la comunicazione politica. Lontana dai cittadini

L'idea che da domani sera l'Italia cambierà volto non convince gli italiani
Il timore più diffuso è che da questa tornata elettorale non non esca nessun vincitore, mettendo da parte le inevitabili analisi relativistiche che si affacceranno sulla scena pubblica immediatamente dopo lo spoglio.

Non che sia il peggiore dei mali. Siamo un popolo disorientato e questo è il vero dramma.

La prima grande sconfitta è già percepibile alle prime luci dell'alba di oggi, domenica 24 febbraio 2013, prima giornata di voto.

La campagna elettorale non è stata efficace. 

Che siano le strategie di Monti, Berlusconi, Meloni, Grillo, Ingroia e compagnia (ognuno per carità ha avuto i suoi momenti felici e le cadute di stile) ma il fatto concreto e tangibile è che gli italiani stamane non sanno ancora chi votare.

Sono spaesati, confusi, non hanno punti di riferimento. E questo, bando qualsiasi critica peculiare, vuole dire solo una cosa: che i movimenti per quanto abbiano messo in campo forze, energie e soldi, non hanno saputo conquistare davvero

Siamo dentro la rivoluzione. Qualcosa sta cambiando. Gli ideologismi appartengono ormai al secolo scorso. Siamo in una nuova era. Ma ancora dobbiamo capirla.

Un'analisi attenta dei mutamenti, dei bisogni delle persone, dei loro canali di ascolto, dunque, sarebbe stata opportuna e avrebbe certamente prodotto effetti migliori.

Penso all'esigenza, ad esempio, della nuova comunicazione pubblicitaria, di avvicinarsi agli individui. Il potenziale cliente di Coca-Cola, mettiamo, se ne frega altamente se la bibita lancia un prodotto bello, buono e accattivante. Quello che conta oggi è che quella bevanda soddisfi una sua necessità. 

Sono i meccanismi affascinanti di quello che in gergo creativo viene chiamato "insight" (termine preso in prestito dalla psicologia) e che in sostanza mete al centro i bisogni delle persone. Sulla stessa linea si muovono gli strumenti che abbiamo disposizione per comunicare: i social network, decisamente orientati all'individuo e le strategie di marketing di prossimità come la guerrilla.

Un bell'esempio è quello dei più recenti spot Nivea che circolano nella rete.

Qui i pubblicitari si sono divertiti ad irrompere nella vita di persone comuni, in attesa all'aeroporto, con uno scherzo al cardiopalma che li ha resi protagonisti. 
http://www.youtube.com/watch?v=_gWk_yKtEdo

Un progetto nato dall'ascolto delle esigenze della gente, come lo spot interattivo che propone un primo appuntamento a cena dove l'utente può decidere di mettere in difficoltà la povera ragazza, che però saprà sempre come cavarsela perché indossa il deodorante Nivea.
http://www.youtube.com/watch?v=XpO0eoh3hGs

L'esplorazione di nuove vie di comunicazione orientate alla persona è l'unica strada percorribile oggi per poter conquistare il proprio pubblico. Lo stesso, ne sono convinta, vale per la comunicazione politica.

Ma questa campagna elettorale ha mancato il segno. I cittadini non si sentono protagonisti. E oggi, sono confusi più che mai.



giovedì 14 febbraio 2013

I LOW shopping (ovvero: I love shopping low-cost)


Lo dico subito a scanso di equivoci: non ho mai letto Sophie Kinsella. E non ho la più pallida idea di cosa ci sia scritto nei suoi libri.
Ma voglio parlare di shopping. Quella cosa che per il genere maschile rientra nelle patologie incurabili della donna. E forse non a torto. Ne sono sempre più convinta da quando, oggi, mi sono concessa una piccola avventura nel mondo dell’abbigliamento.
Ora, non tutti sanno che non tutte le donne sono malate di shopping. O meglio: è una malattia distribuita a diversi livelli a seconda del bisogno di affermazione, di approvazione estetica, di insicurezza personale e di qualsiasi altro migliaio di varianti possibili che vagano nel cervello femminile. Ma per dirlo serve uno psicologo. Io mi limito ad osservare. Le altre e me stessa.
Lo ammetto: non sono un' esperta di moda, ho probabilmente uno stile tutto mio, che definirei comodo prima di tutto, originale senza trasgressione, con un pizzico di sensualità e generalmente colorato. Non mi piace abbinare ossessivamente scarpe, cinta, borsa e accessori vari perché lo trovo estremamente faticoso e trovo consolante definire questo modo di fare “provinciale” e di poco gusto. Insomma per comodità preferisco la borsa che va bene su tutto. Purché sia capiente quanto quella di Mary Poppins.
Altra cosa importante da sottolineare: il mio shopping è sempre economico: passo dai riti del mercato settimanale (quello dell'usato, d'altronde se hai buon gusto e sai scegliere fa pure un sacco chic) alle scorribande nei grandi magazzini dell'abbigliamento fashion a basso costo.
È con l'intenzione di riuscire anche stavolta in una delle mie migliori performance alla ricerca del capo "figo" a poco prezzo che oggi me ne sono andata nel negozio di una grande catena di abbigliamento low-cost. E per dimostrarvi quanto sia lieve la mia malattia premetto che non avevo minimamente idea che proprio oggi (al massimo ieri) fossero iniziati i saldi a Latina. Lo capisco appena ci arrivo davanti: SALDI SALDI SALDI. Le vetrine sono tappezzate con lettere cubitali. Fuori dal negozio, che avrebbe aperto alle 13, inizia ad arrivare gente. E quando le serrande si alzano l'orda si riversa nel locale, la gente affoga tra migliaia di capi, inizia l'occupazione militare dei camerini mentre le commesse tentano di conservare un accogliente sorriso che di lì a poco si sarebbe trasformato in un tic nervoso.
Io intanto assaporo l’estasi della grande occasione. Come se mi fossi trovata un po’ per caso un po’ per destino nel posto giusto nel momento giusto. Entro lentamente pensando al mio obiettivo: non farmi scappare le occasioni migliori. E cercare quei capi di cui andrò fiera perché so che assaporerò un piacere sublime nell’ indossarli sapendo di averli pagati due centesimi.
Mentre inizio a scandagliare scaffali e stendini su cui soffrono strizzati migliaia di abiti inizio a riflettere. E maturo uno strategia. Prima cosa: scandagliare il negozio. Guidata da un intuito artistico tutto mio passo in rassegna tutti i reparti, meticolosamente, uno ad uno. Tocco, osservo, catalogo, immagino, costruisco, confronto. Ma non prendo nulla. La prima fase la dedico ad una perlustrazione approfondita. Alla quale, mi dico, seguirà la scelta dei capi da portare in camerino. Un lavoro impegnativo ma che si risolve presto in una prima selezione. Al termine della perlustrazione so già quali capi mi hanno attratta veramente, quali solo superficialmente e quali non mi interessano affatto. Fermo restando che non si tratta di una classificazione rigida. Sono consapevole del fatto che in qualsiasi momento potrebbe spuntare un capo che mi era sfuggito prima o, ancora meglio, potrei rivalutare qualcosa che avevo scartato a priori grazie ad una nuova illuminante prospettiva.
E arriva il secondo giro. Stavolta infilo la mia Shopping bag sulla spalla sinistra pronta a metterci dentro i vestiti. Non certo quelli che comprerò. Ma quelli che avranno passato la prima selezione e che potranno venire con me nel camerino. E per fare ciò c’è bisogno di alcune regole: mettere in borsa anche quelle cose su cui tentenno, non farmi scrupoli tanto so già che addosso avranno tutt’altro effetto e quindi per una ragione o per l’altra molti di quei capi saranno scartati.
Torno ai posti di partenza. E rifaccio il percorso dal principio. Stavolta sono più sicura. So che se prenderò gli shorts a 15 euro non ne troverò un altro paio che preferisco a 7 euro più avanti. Anche a questo serve la perlustrazione.
E comunque si comincia. Guardo le taglie, seleziono e infilo nella Shopping bag. Fondamentale in questa fase è ascoltare i commenti delle altre. Sento gridolini di gioia un po’ qua un po’ là, donne che trovano cose che io non avevo visto o che non avevo osservato nel modo giusto. Una dice: “guarda quella camicetta l’ho vista l’altro giorno ad una tipa che ci ha abbinato jeans shorts e una cinta carinissima, era stupenda”. E allora vado lì e me la guardo. Mi dico che effettivamente non è poi male e potrei provare a vedere se anche su di me fa quell’effetto “figo”. Così la infilo nella Shopping bag. Ovvio che la tecnica va usata con cautela. Bisogna saper valutare soprattutto se chi ha espresso quel giudizio ha gusto o meno. Altrimenti si rischia di tornare a casa come un uovo di Pasqua. Il proprio gusto personale regna su tutto.
Importantissimo se si fa shopping da sola è poi infilare nella Shopping bag anche diverse taglie dello stesso indumento. Non essendo sicure della propria misura una volta entrate in camerino è impossibile uscire per andare a prendere la taglia giusta e poi rientrare trovandolo ancora libero. Quindi se non è possibile munirsi di un’accompagnatrice meglio adottare questo escamotage. Tanto poi gli indumenti non bisogna rimetterli a posto. C’è gente pagata per farlo. E farti trovare la taglia giusta è nel loro interesse. Quindi: non fatevi scrupoli.
Il momento della prova è arrivato. Fortunatamente trovo un camerino libero e so che devo sbrigarmi ad occuparlo. Dribblo un gruppo di ragazze che approfittando di un mio momento di distrazione mi avevano superata e cogliendo un loro tentennamento sgattaiolo nello stanzino. Chiudo e sospiro: è mio!
Prima di passare alla prova vera e propria appendo tutti i capi e decido di dar loro un ordine. Quelli scartati andranno sulla porta mentre a quelli buoni riserverò uno degli appendiabiti.
Con mia grande sorpresa il capo di cui ero più convinta non mi piace addosso. Vedi a che serve provare? Curioso come questa riflessione mi faccia pensare subito ai miei rapporti col mondo maschile.
Ma è solo un momento: devo concentrarmi. Mi guardo allo specchio e mi vedo. E allora capisco che a me quel colore non mi sta proprio bene ma quell’altro mica male però. Finisco col scegliere i capi più comodi ma con stile. Come volevasi dimostrare. Pochi superano la selezione ma in fondo so che di loro non mi pentirò mai. La camicetta “figa” non va, a me non è proprio adatta. Avrei dovuto fidarmi della prima impressione ma che fa, d’altronde l’ho solo provata. Vado dritta alla cassa e, purtroppo, c’è la fila. Mica perché devo aspettare. Ma perché è allora che inizia il momento più tragico. Ché se sei in fila da sola e non hai un’amica stavolta non c’è scampo. È matematicamente provato che una volta in coda scopri tutto quello che avresti voluto comprare e non hai trovato prima. Arriva la tipa che chiede di cambiare quel top che tu avresti tanto voluto ma che non c’era della tua taglia e a lei la tua taglia invece non va bene allora lo ha riportato indietro. Che fai? Perdi la fila? Per un pezzo di stoffa? Io decido di no. Poi mi guardo attorno. E inizio a vedere tutte quelle magliette che non avevo considerato eppure costano così poco ma non ci avevo pensato e invece adesso che le vedo addosso alle commesse sono così carine che non potrei farne a meno. Come se tutti quei capi fossero rimasti nascosti fino a quel momento e fossero venuti fuori a farti bubusettete!
Ma la fila dietro di me è cresciuta e a quel punto ricominciare da capo è un suicidio. In fondo lo so che la storia si ripeterebbe ad ogni tentativo di pagare. E quindi faccio finta di non vedere. Finisco la coda, pago e vado via.
Tornata a casa svuoto la mia preziosissima busta e assaporo i miei nuovi acquisti low-cost mentre li sistemo uno ad uno nell’armadio. E sul mio volto si disegna un ghigno di soddisfazione. Coronato dal pensiero che presto tornerò in quel negozio per poter usufruire di un buono sconto del 10% che la commessa mi ha consegnato. E sì: rifarò tutto da capo!

mercoledì 13 febbraio 2013

Ratzinger esempio del grande cambiamento. La strategia della fiducia applicata alla Chiesa.

La scelta del Papa ruota esattamente attorno alla questione fiducia

Alcuni giorni fa ne ho parlato facendo un'ipotesi sulle strategie di comunicazione dei candidati alle elezioni.

Se il bacino elettorale manda continui ed incessanti messaggi di sfiducia nei confronti del governo e degli apparati politici, un candidato dovrebbe come minimo adottare una strategia di comunicazione (e di azione) volta a riconquistarlo. Elementare? Eppure nessuno lo fa.

Con un colpo di mano, invece, Benedetto XVI ha imboccato la strada del cambiamento radicale.

Premetto che l'attuale Pontefice non mi è mai stato troppo simpatico. Empatico, più precisamente. 
Ciononostante da quando ha deciso di abbandonare il Papato ho capito che nessun altro al suo posto avrebbe mai preso una decisione tanto coraggiosa quanto significativa per la Chiesa ed il mondo intero.

Non sono una tifosa del Clero. I preti non mi sono mai stati tanto simpatici, fatte rare eccezioni. Eppure stavolta Benedetto XVI ha la mia stima più profonda. 

La sua è stata evidentemente una decisione difficile e sentita. Nata dall'ascolto dei bisogni della gente, fedeli e non fedeli. Strutturata secondo semplici ma fondamentali step:

1. Ascolto dei messaggi provenienti dal mondo. E non solo attraverso Twitter. Un passo, questo, che ha dimostrato una grande apertura della Chiesa nei confronti dell'uomo contemporaneo. 

2. Analisi delle richieste, delle critiche provenienti dal mondo esterno.

3. Confronto con l'identità della Chiesa, sfacciatamente in contrasto con le realtà ed i bisogni umani.

4. Analisi delle proprie debolezze (pedofilia, ricchezza, sfiducia)

5. Esempio

Ratzinger ha lasciato la sua poltrona. Ha smesso gli abiti papali. Non sono una teologa ma credo che nel suo gesto si possa leggere un ritorno metaforico al francescanesimo (non sarà mai povero Ratzi, altrimenti non avrei parlato di metafora). 
Ha dimostrato di non avere interesse nell'essere Papa in una Chiesa che ha perso la fiducia della gente. Che invece che essere rifugio è diventata ostacolo. Ha dimostrato che quello che conta non è essere ma fare
Un concetto che in politica è definitivamente perduto. Ha riportato sulla scena l'importanza di un messaggio profondo, di cambiamento, di ascolto

È un uomo di 89 anni che dimostra davvero a tutta l'umanità (grazie anche, per carità, ad un folto e ben pagato staff di consulenti) che si può cambiare rotta

Ed è un invito esemplare ad ascoltare il popolo, ad ammettere i propri sbagli e a fare, piuttosto che restare attaccati alla propria poltrona ingioiellata. 
E la cosa migliore da fare, a volte, è proprio uscire di scena. Cosa che gli elettori italiani chiedono da tempo ai vecchi politici. 
Una richiesta che è tuttora inascoltata. Il filo tra gli elettori e gli esponenti politici resta spezzato. Non sappiamo se quello tra la Chiesa ed il resto del mondo tornerà integro. Ma un primo decisivo passo c'è stato. 
Se davvero le intenzioni sono quelle di rimettere in discussione il rapporto Chiesa-resto del mondo questo è il momento di mettersi al lavoro.





martedì 5 febbraio 2013

Come combattere la sfiducia degli elettori. Alla ricerca di un'ipotesi strategica.



Arrivare a conquistare un voto significa essersi guadagnato la fiducia di un elettore.
Quando però l'ardua impresa non riesce si passa all'uso di strumenti come il voto di scambio, le minacce, le promesse ai disperati. E via dicendo.
Il che può anche funzionare. Ma non a lungo termine.

Conoscere i motivi della sfiducia dei cittadini è dunque un passo fondamentale per qualsiasi candidato che voglia davvero conquistare un ampio bacino elettorale. Con conseguenze solide e a lungo termine.

È opinione diffusa che tutti i candidati hanno un interesse personale. Gli italiani, in particolare, di una cosa sono davvero certi: l'interesse dei candidati è quello di conquistarsi la poltrona

E questo è innegabile. Perché è la verità. Chiunque abbia scelto di fare politica ha interesse a fare carriera. Non potrebbe essere altrimenti. Anche un medico, un insegnante, un artigiano vogliono avere successo nel proprio lavoro. Ed è altrettanto chiaro che un politico farà il possibile per ottenere quel posto

Ma gli italiani vanno oltre. L'esperienza degli ultimi anni ha rafforzato in loro l'idea che i politici non solo vogliono vincere le elezioni per avere una poltrona e fare carriera. Soprattutto hanno sete di potere, di soldi. Il male diffuso che un candidato oggi si trova a dover fronteggiare e sconfiggere è l'idea che i politici vogliano assicurarsi un posto in prima fila che gli permetta di vivere una vita agiata, nello sfarzo e nella lussuria

Sono passati duemila anni dall'Impero e poco è cambiato.

Ma tant'è. Se questa è la realtà bisogna guardarla in faccia. 

Il conflitto d'interesse, secondo il ricercatore Dan Ariely, è scolpito in ciascun individuo. Il problema è che in alcuni casi nemmeno l'individuo stesso ne ha consapevolezza. Magari crede di avere solo ottime intenzioni. E se riusciamo ad avere la percezione di quanto siamo ciechi davanti ai nostri veri e profondi interessi figuriamoci quanto possiamo esserlo degli altri.
Quello che conta dunque è essere onesti. E non è un luogo comune. È una sfida.
Nessuno sarebbe così stupido da voler ammettere i propri difetti in pubblico. Nessuno crederebbe ad un venditore porta a porta che elencasse i difetti dell'aspirapolvere che vuole venderci.
Ma ne siamo proprio sicuri?

Mettiamo che un candidato domani decida di rilasciare questa dichiarazione
"Prometto di cancellarmi lo stipendio una volta eletto. Prometto di conservare integra la mia famiglia per dare un buon esempio alla cittadinanza. Prometto di impegnarmi per il bene del paese".
Nessuno lo crederà

Mettiamo che invece quel candidato domani dichiari:
"Mi sono candidato perché voglio conquistare la mia poltrona al governo. Voglio fare carriera, voglio avere potere". 
Sarà paradossalmente molto più credibile

Avrete molta più difficoltà a credere in un venditore porta a porta che vi presenta solo i pregi del suo aspirapolvere.

È chiaro che non è esattamente questa la strategia di comunicazione che consiglierei ad un candidato.
Ma inizierei certamente a ragionare sulla consapevolezza dei meccanismi di fiducia, attorno all'idea dell'interesse personale per iniziare a scardinare il muro della sfiducia.

lunedì 4 febbraio 2013

Bersani: illeggibile la mail agli elettori. La Testa lo fa a pezzi.

È tra i candidati favoriti alle prossime elezioni. Sa (presumiamo) che per coinvolgere gli italiani deve comunicare bene.

E Pierluigi Bersani che fa?
Scrive una bella letterina e la spedisce a migliaia di contatti mail.

Una di queste va a finire dritta dritta nella casella postale della guru della comunicazione italiana: Anna Maria Testa. (Che poi, dico, lo sai che ce l'hai nella mailing list: fai un po' di attenzione).

A lei, che la campagna del PD sta davvero a cuore (e non lo nasconde), iniziano a prudere i polpastrelli. 
Così prende la letterina di Pierluigi, la disseziona, parola per parola e spiattella il risultato dell'operazione sul suo blog nuovoeutile.it 

Insomma: un esempio di come non dovrebbe mai essere scritta una mail elettorale. Di quanto sia fondamentale non affidarsi a stagisti, segretari o specialisti del copia e incolla se si vogliono davvero ottenere dei risultati dalle operazioni di comunicazione che ci accingiamo ad intraprendere.

E pure se alla fine, a leggere lo sfogo della Testa, ti figuri la maestrina che rimprovera lo scolaretto, la lezione serve. Eccome.

"Scrivere una mail efficace non è semplice. Bisogna prestare attenzione per a) non scrivere sciocchezze, b) non mettere insieme un testo che sta a metà tra un circolare, un comunicato-stampa e un volantino c) dire cose interessanti e rilevanti per il destinatario, fargli capire bene  che cosa ci si aspetta da lui e motivarlo ad agire. Un mailing ben fatto è un ottimo strumento:  veloce, relativamente poco costoso, caldo sotto il profilo della relazione. Permette di di trasmettere a ogni destinatario messaggi profilati e calibrati sulle sue attese e i suoi orientamenti. Nell’ultima campagna elettorale Obama l’ha usato molto, e lavorando di fino sul linguaggio alla ricerca di formule semplici e naturali: guardatevi queste sei variazioni su una mail per il fundraising."

Serve a tutti coloro che non immaginano quanto siano importanti le parole per coinvolgere, acchiappare e conquistare il proprio pubblico. E quanto bisogno ci sia di comunicatori professionisti.

Dunque, signori, leggetevi l'articolo.

http://nuovoeutile.it/bersani-mi-scrive-e-mi-parte-lembolo/



L'economia del messaggio dall'inchiostro ai pixel.

Letteratura o matematica. O sei portato per l'uno o per l'altro, ti dicono fin da bambino. Sicché spesso crediamo che chi scrive possa scartare a priori l'altra metà della mela. 
E invece. Parole, frasi e concetti hanno a che fare con la matematica molto più di quanto immaginiamo.

Le care vecchie redazioni giornalistiche sono scandite quotidianamente dai numeri. Ogni pezzo si misura in battute, spazi inclusi. E l'autore deve starci dentro al millimetro. 

Ho passato giornate intere a contare le lettere per farle calzare a pennello. A distillare significati per dirla tutta con poco. A diluire pezzi per quel dannato rigo che mi avanzava.
Intanto mi chiedevo che direzione stesse prendendo l'informazione

Nel frattempo è esploso il web. Blog, social media, microblog. E la faccenda per chi scrive è diventata ancora più complicata.
A vantaggio tuttavia, ne sono convinta, del lettore che può prendere davvero l'essenziale dalle informazioni.

Lo spazio visivo digitale è nettamente diverso da quello cartaceo. Gli occhi scorrono rapidi sui pixel luminosi e hanno bisogno di stimoli, di concetti definiti, senza fronzoli. Di respiri, di spazi aperti.

Entra in gioco anche il tempo, che nel quotidiano non conta molto. Se vado in edicola e compro un giornale all'editore poco importa se lo leggo in 5 o 10 minuti. L'ho pagato, l'importante è che mi soddisfi al punto di decidere di ricomprarlo. 
Se invece mi colpisce un contenuto sul web ogni secondo che passo sulla pagina che lo ospita è oro colato per l'autore. Sicché i numeri da considerare aumentano. E quando va bene è questione di secondi.

Dunque per catturare l'attenzione del mio pubblico dovrò essere chiara, essenziale e accattivante. Almeno per il pubblico interessato alla materia che tratto.

Prendiamo Twitter: che lo voglia o no hai 140 caratteri per dirla tutta. 
Ma nemmeno su Facebook, su un blog l'impresa di trasferire il contenuto di un pezzo scritto per un quotidiano o una rivista riuscirebbe. Sono altri mezzi, veicolano messaggi in maniera completamente diversa.

Per capirlo, noi che abbiamo vissuto il passaggio dal concepimento all'evoluzione dei nuovi media, dobbiamo sperimentarlo. 

Un post su Facebook piace nella formula due righe più foto. Nessuno leggerà mai, a meno che non sia davvero interessato, il contenuto testuale di un link ad un'altra pagina, che sia un blog o un sito di notizie. 
"Proposta shock di Berlusconi: al primo Cdm restituirò l'Imu". 
Al lettore internauta non servono altri fronzoli. Ha le informazioni che gli servono per condividere, commentare e rendere la notizia virale.

Quanto ai blog. Questo articolo, ad esempio, è molto più leggibile se lo condisco con spazi bianchi qua e là, separo piccoli paragrafi, evidenzio alcune frasi in neretto, se permetto all'occhio del lettore di capire subito dov'è che voglio portarlo. 
È un tossico dell'informazione, lui. Ha bisogno della sua dose di significato, non può aspettare troppe parole (anche i concetti hanno una loro unità di misura, una sorta di bit dell'informazione) .

Editoriali, approfondimenti, minestroni, giri di parole, voli pindarici, raramente hanno successo sullo schermo luminoso. A meno che io non sia patita del direttore di una tale testata e decida di leggere quotidianamente quello che racconta. Ma anche lui dovrà essere breve se vorrà continuare ad avere la mia attenzione. Non ci piove. 

Ed è anche giusto che sia così. Se voglio approfondire compro un quotidiano. Che resti un piacere, quello. 

E una volta che siamo soddisfatti della nostra dose di informazione, dopotutto, cosa vogliamo di più? Condividerla

Geniali i social media. Anche in questo. Hanno trasformato in profitto, attraverso dati e numeri, anche il piacere di condividere le informazioni acquisite. 

Una volta ci si alzava al mattino, si prendeva il giornale in edicola, se si voleva far presto si dava un'occhiata ai titoli e poi se ne parlava con gli amici al bar o in ufficio. Anche questo oggi, sul web, diventa profitto. 
Quello che noi abbiamo voglia di raccontare ai nostri amici è monitorato costantemente attraverso numeri, statistiche e capacità "virale". Curioso, no?

E voi, ce l'avete fatta ad arrivare in fondo a questo post?










venerdì 1 febbraio 2013

Alle parole dei politici non ci crede nessuno. Lo dimostra un test.



Il sole è giallo. Elementare.
Eppure se a pronunciare questa frase fossero Silvio Berlusconi, Mario Monti o Pierluigi Bersani molti di voi la metterebbero in dubbio. 

È il risultato di un esperimento sulla fiducia che le persone ripongono in un qualsiasi partito politico o in una marca.
Lo racconta l'economista comportamentale Dan Ariely in "Predictably Irrational"(tradotto in italiano da Rizzoli "Prevedibilmente Irrazionale").

Presi due gruppi di individui, al primo gli studiosi hanno chiesto se credessero che frasi come "il sole è giallo" o "un cammello è più grande di un cane" fossero vere o false. Naturalmente il 100% ha risposto che le credeva vere.

Al secondo gruppo è stata data un'informazione in più. È stato detto loro che quelle frasi erano state pronunciate da tale partito politico o tale azienda.
Il risultato è stato che gli intervistati hanno espresso molti più dubbi sull'affidabilità di quegli assunti. («Certo - il sole - è giallo, ma ha anche delle macchie rosse sulla superficie e a volte sembra bianco, dunque è davvero solo giallo?»)".

Roba che dovrebbe far rizzare i peli a tutti coloro che si cimentano sia nella vendita che in una campagna elettorale. 

Che gli italiani siano sfiduciati nei confronti della politica è un dato inopinabile. Basta uscire in strada e chiederlo a qualsiasi cittadino. 

Chi invece non sembra preoccuparsi affatto di quanta fiducia ripongano gli elettori nei politici sono proprio loro, i protagonisti della scena elettorale. Cosa fanno per conquistare il loro pubblico? 

Volessimo dar retta a Ariely una speranza ci sarebbe. "Dopotutto - scrive - gli esseri umani sono animali naturalmente sociali e fiduciosi e tendono a credere gli uni negli altri anche di fronte a motivazioni razionali contrarie".

Segnala allora il caso di Comcast, fornitore americano di servizi per la comunicazione e collegamenti via cavo, dove il direttore del reparto assistenza digitale si è andato a cercare le lamentele degli utenti prima che arrivassero a destinazione, dunque su forum e social network e ha fornito loro le soluzioni prima che potessero denunciare i malfunzionamenti. Arrivando prima, insomma, che potesse generarsi la sfiducia nel servizio.

Il problema nella politica italiana è serio. Per questo servono strategie nuove. 
Riconquistare la fiducia, una volta perduta, come insegna la favola di "al lupo, al lupo!" non è affatto semplice. È un percorso difficile e a lungo termine. Ma prendere consapevolezza del problema "fiducia" sarebbe già un ottimo inizio.

D'altronde, il sole, checché se ne dica, è giallo.