venerdì 20 dicembre 2013

Emigrati per crisi. Riscoprire l'America un secolo dopo.



Emigrati per crisi. 
Immagino la scritta appesa fuori ad un negozio italiano.  
Ce l'abbiamo nel sangue l'emigrazione, noi italiani. Per inseguire un sogno, per salvare la famiglia, per tornare felici oppure per non tornare più. Un viaggio che a volte faccio è quello nell'archivio della fondazione di Ellis Island, quell'isolotto che dà il benvenuto ai navigatori a New York. All'America. E così scopro che i miei avi hanno creduto in quel sogno e l'hanno vissuto. 
Nel 1899 Stefano Chinappi all'età di 24 anni prese i suoi bagagli e partì da Gaeta (allora chiamata Elena, in onore della regina, in provincia di Caserta). Raggiunta Napoli s'imbarcò sulla Alsatia, nave di fattura scozzese che portava 156 passeggeri in prima classe e 1100 in terza viaggiando a 13 nodi (poco più di 20 km/h). Un viaggio enorme, bestiale. Ma in regola. Quando le giovani e vaste lande americane erano braccia aperte per i disperati. 
Stefano era un ragazzo che non aveva nulla da perdere. Non era sposato, non aveva figli. Forse era fidanzato. Forse era innamorato. Probabilmente qualcuno ha pianto salutandolo sulla porta di casa.
Stefano ha gridato “America!” il 15 maggio del 1899. E dev’essere stato un grido liberatorio. Che in un istante gli ha fatto scordare le pene del passato, il viaggio interminabile, la fatica. E gli ha fatto tornare la speranza. 
Le pratiche di arrivo, la quarantena a Ellis Island e poi via, ad abbracciare l’America. 
Nel 1907 Stefano era tornato in Italia, si era sposato e a 33 anni rifece il viaggio a bordo della Republic, nave a vapore che viaggiava a 16 nodi, in direzione America dove vi arrivò il 23 maggio.
Nel 1903 Antonio Chinappi aveva 12 anni e attraversò l’oceano Atlantico. Anche lui, forse assieme ai genitori, partì da Gaeta. Raggiunse Ellis Island il 16 maggio. Vent’anni dopo tornò in Italia. Probabilmente aveva fatto fortuna ed era tornato per portarsi dietro qualcuno. Per aprire le porte della nuova casa, di una nuova terra, di un futuro sereno per i suoi familiari. O forse aveva solo nostalgia di quella terra che aveva conosciuto da bambino. In ogni modo ripartì a 32 anni per Summerville, dove si era stabilito e aveva trovato moglie. 
Nel 1904 sbarcò a New York Luigi Chinappi. Aveva 62 anni e magari era il nonno del piccolo Antonio. 
Tre anni dopo partirono anche Francesco (18 anni, single) e Cosmo (36 anni, sposato) a bordo della Cretic, una nave inglese che viaggiava a 16 nodi trasportando 260 viaggiatori in prima classe, 250 in seconda e mille in terza. Magari erano fratelli, cugini o comunque erano legati da uno stretto vincolo di parentela e avrebbero provato a costruire insieme il futuro per le loro famiglie. Il sole batteva sulla prua quando i due avvistarono terra. Era il 27 luglio del 1907. E il sogno americano stava solo cominciando.
Nel 1910 un altro Antonio Chinappi salì a bordo della Celtic, una delle più grandi navi nei primi anni del ‘900, dotata di un’ottima seconda classe. Aveva 25 anni ed era single.
Poi ci fu una lunga pausa. Dal 1910 fino al 1920 nessun Chinappi fece la grande traversata. Probabilmente fu anche la guerra a bloccare i viaggi migratori. I giovani d’altronde erano chiamati a servire la patria. E qualcuno addirittura tornò per compiere la missione. 
Uno di questi potrebbe essere Francesco Chinappi, già emigrato diciottenne assieme a Cosmo. C’è la possibilità che rientrato in Italia e sopravvissuto al ’15-’18 tornò a costruire il suo sogno americano. Lo ritroviamo, stavolta sposato, a bordo della “Ferdinando Palasciano”, nave militare tedesca catturata dagli italiani nel 1915, trasformata prima in nave ospedale e poi ceduta alle Ferrovie dello Stato. Salpò da Napoli per raggiungere New York il 3 luglio del 1920.
Infine l’archivio della fondazione di Ellis Island ci dà notizia del viaggio di Erasmo Chinappi, anche lui di origine gaetana. Era già un uomo quando, a 39 anni, insieme a sua moglie salì a bordo della “Dante Alighieri” costruita dalla società Esercizio Bacini di Riva Trigoso nel 1914. Il viaggio dovette essere molto duro poiché la nave attraversò l’oceano in pieno inverno. Ma l’arrivo a Ellis Island fu la nuova primavera. Era il 10 marzo del 1921.

venerdì 22 novembre 2013

Mulini Bianchi e Moulin Rouge sull'Autosole. Fotografia delle relazioni di coppia lungo lo stivale.

Una domenica passata sulla A1. Dal mattino alla sera. Torno da un festival letterario e mi sparo l'Autosole tutta d'un fiato. Da sola. Cosa che non mi è mai acccaduta per cui quel che faccio quando mi capita di fare per la prima volta una cosa da sola è: osservare.
E ne vengono fuori delle belle.
Una considerazione maturata in anni ed anni di osservazione della gente: gli uomini stranieri più sono fighi e più sono accompagnati da donne bruttissime. Ma hanno sul viso stampata la candida felicità del Mulino Bianco.
Cominciamo dall'inizio perché questo viaggio è l'esempio di quello che puoi incontrare, così, a caso, lungo un tratto d'autostrada italiano. E ne è venuta fuori la fotografia delle relazioni di coppia lungo lo stivale.
Il primo incontro degno di nota sono i trans. Due virgolettate signore imbellettate e ben allestite entrano in un bar, prima del casello. Scena dall'esterno. Un ragazzetto in divisa da lavoro osserva me, che son donna, con evidente interesse. Da sottolineare che quello lì avrebbe guardato qualsiasi essere dotato di pertugi con quell'espressione. Ma sul più bello, mentre mi accorgo che sta per proferire parola (e Dio solo sa quale selezione linguistica avrebbe prodotto il suo cervello), ecco che fanno la loro entrata in scena le due virgolettate. Il ragazzetto è ancora concentrato tutto sul suo unico neurone linguistico (gli altri due tre neuroni sono impegnati in un'accesa discussione col testosterone) quando la stanga di 1,90 dotata di mascellone, calze a rete e voce caveronsa gli rivolge un entusiasmante saluto, carico di significato: "Ehi ciao, tesoro!" Che poi il mascellone nemmeno sembrava tanto interessato al ragazzetto. Però quell'intonazione la diceva lunga su una già evidentemente collaudata amicizia. E avanti. I trans entrano nel bar e il tizio si sgonfia. Smascherato nella sua intimità perde ogni interesse nello sventolare l'ormone. Il mascellone, almeno per me, è stato una manna.
Secondo flash. Autogrill.
Dopo aver esplorato la toilette mi accingo a percorrere il labirintico market, di quelli strategici che qualcosa la devi comprare per forza. Ma va beh a me serve solo il dentifricio. Però uno sguardo qua e là lo butto. Ed ecco che mi si presenta una delle realtà più caratteristiche della società moderna italiana. Due veri "tipi" da commedia dell'arte, ahimé molto ma molto lontanti da quelle nobili figure teatrali che al nostro bel paese han dato pregio. Però tant'è. Questi son quelli che abbiamo oggi.
Sollevo lo sguardo dai cioccolatini e davanti a me si materializzano una bella e prosperosa giovane assieme ad un premurosissimo e rotondo pappone canuto. Il quadro è agghiacciante. Non me lo perdo nemmeno per sogno. I due prendono tutta la scena. Ed è davvero come se fossero entrambi al centro di un palcoscenico, illuminati dalle luci della ribalta si muovono a loro agio, sapendo naturalmente di essere osservati da un vasto pubblico e di questo ancor più compiaciuti.
La bella è abbigliata con opinabile gusto ma sarà facile figurarsela con minigonna inguinale, calze velate, tacchi a spillo e scollatura. Troppo facile. Quel che non sapete è che aveva effettivamente un volto delicato, occhi azzurri ed una folta capigliatura corvina su pelle chiara. Bella come un'opera d'arte sfregiata. Ma che vuoi fare. Son scelte. Lei era tutta catturata dalle autogrilliane raccolte di musica leggera italiana. Di quelle che mettono insieme un po' di tutto e son divise per decenni. In tutto il suo candore esclama al suo accompagnatore: "Guarda! Ci sono gli anni '60. '70, '80, '90... sai che sono tutte belle? vorrei prenderne una!" Sapendo già, subdola, che lui non le avrebbe mai negato un tal dono pensando a ciò che lei poi avrebbe più lietamente corrisposto. "Dai, prendili tutti!" E lei, ancor più subdola: "Ma no, ma dai, tutti?". Ed è qui che credevo fossero arrivati all'apoteosi della pièce in scena all'Autogrill. Quando lui le ha risposto: "Ma sì, prendili tutti. Tanto oggi ci dobbiamo divertire no?". Forse ho capito che è una pièce drammatica. Mi vien da piangere. E allora prendo su il mio dentifricio, mi concedo il mio personale momento di lussuria acquistando una barretta di cioccolato, di quelle buone, e abbandono la platea. Credendo di essermi lasciata alle spalle i due protagonisti. Accendo il motore, mi dirigo verso la pompa di benzina e mi fermo davanti all'erogatore del gasolio. Spengo il motore e mentre aspetto il garzone, mi volto, per dare un'occhiata in giro. In quel preciso istante il muso di una Ferrari testa rossa fa capolino accanto alla mia utilitaria. E si ferma. Non c'è bisogno di aggiungere altro se non che alla guida non c'era il pappone ma: lei. Perché "oggi ci dobbiamo divertire". E con l'ultimo sussulto di tristezza ingrano la prima.
Terza sosta.
Stavolta c'è l'Autogrill quello anni settanta, che scavalca l'autostrada da un lato all'altro sicché trovi gente che va in entrambe le direzioni. E mi gira un po' la testa che se non ci fossero i cartelli ad indicarmi da quale parte dovrò uscire per andare nella mia direzione io avrei sicuramente sbagliato.
Il ristorante è self service. Faccio la mia selezione e mi avvio verso la cassa. Una coppia italiana mi precede. Devo dire bella coppia, sulla quarantina, belli entrambi. Così d'amblé sembrano anche professionalmente affermati. Ma poi all'italiano basta una coda a scatenare gli istinti animali più profondi. Lei dice: "ah hai preso la frutta? la voglio anche io!" Lui risponde, con tono rude: "Stai ferma". Poi silenzio. Non dà spiegazioni perché l'uomo non deve dare spiegazioni. Lei allora cerca di intuire la buona fede: "Ho capito, facciamo a metà con la tua? non ti và tutta?". Lui, con aria quasi scocciata ma pur sempre superiore: "Quando arrivi a poggiare il vassoio ti vai a prendere la frutta. Prima non ti muovere. Hai visto quella che casino ha fatto prima?". Ecco. queste scene sono meravigliose. Meravigliosamente tristi.
Ma arriviamo al clou. Mi siedo davanti al mio arrosto di tacchino stoppaccioso, le patate sfatte e la mia porzione di frutta che con l'inganno ho comprato a 4,50 euro credendo di avere l'offerta speciale ad 1 euro com'era pubblicizzato ovunque ma, "signora - mi dice la cassiera - per la promozione doveva prendere la scodellina piccola". E non c'era scritto da nessuna parte questo. Ma vabbè mando giù i bocconi amari di un pranzo mediocre pagato 17 euro e sto zitta.
Mi guardo intorno. Due anziani mangiano per dovere e non si rivolgono la parola. Lui ha una testa che potrebbe fare i 360°, si guarda attorno come una bestia ferita fuori dal suo habitat naturale. E mentre io azzanno un boccone di tacchino e patate arriva la visione. Un ragazzo bello. Di una bellezza inconsapevole. Bei lineamenti maschili, sotto i quaranta, moro, sicuro ma affatto pieno di sé. Davvero una bella visione. Me lo gusto qualche secondo, lui neanche si guarda attorno, si vede che non cerca nulla fuori del suo mondo. Che sta bene con quello che ha. E quello che ha sono due bellissimi bambini che lo raggiungono seguiti da LEI. La figura femminile che corona il quadro familiare. Si vede subito che non sono italiani. Lei è biondissima, come la bimba. E parlano una lingua che a distanza non distinguo. È proprio un bel momento. Peccato che lei, la donna che lui ama somigli più ad un animale da pascolo che ad un essere umano. Peccato, mi dico. Lui è davvero bello. Lei no. Cose che accadono solo all'estero. In Italia no, non è possibile. Perché nella coppia lei dev'essere bella. È questo che è tristemente importante. Che se non è così dura poco. Ma non perché siano più forti le "Terry de Nicolò". La triste verità è che son gli uomini italiani a cercarle. E quelle si moltiplicano. Altro che Mulino Bianco: l'Italia è il paese del Moulin Rouge!





martedì 3 settembre 2013

Politica: il voto di scambio e la maledizione di Lurco



“Siamo nani sulle spalle dei giganti”. Dagli antichi possiamo solo imparare. E sulle loro spalle, dunque servendoci della loro esperienza, possiamo guardare molto lontano, davanti a noi. Era quello che pensava un tizio alle soglie dell’illuminismo. Si chiamava Fontenelle era un francese, filosofo con la vena poetica, mica per niente era nipote di Pierre Corneille. Insomma un figlio d’arte. Quello che in versione dispregiativa chiameremmo oggi “figlio di papà” o più semplicemente “raccomandato”, che detto così diventa un poco di buono. Sembra una bazzecola. E invece la differenza è sostanziale. Sta tutta nell’importanza che la cultura e le arti hanno avuto per i potenti nel corso dei secoli.

L’epoca augustea - alla quale non ci si crede ma noi pontini abbiamo contribuito più di quanto immaginiamo - ha brillato di luce anche grazie alle arti. Augusto - contemporaneo di Cristo che c’entra se non per dare un’idea dell’epoca storica - aveva capito che se poeti, filosofi, letterati, avessero parlato bene di lui il suo potere ne avrebbe solo goduto. Stessa lungimiranza l’ebbe il suo successore Tiberio. Figlio d’arte pure lui (e di una fondana di successo). Fate un po’ voi.
Da Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (per gli amici Augusto) a Silvio (per gli amici Berluska) il passo è lungo. E nell’ampia falcata forse qualcosa l’abbiamo perso. Ché i figli d’arte son diventati figli di papà. Senza star qui a fare esempi che mi par poco garbato, sono certa che l’intuito del lettore risponderà illuminandolo con immagini esemplari. Fermo restando che il concetto si allarga ben oltre i confini del parentado.
E così che l’arte e il governo oggi sono agli antipodi. Eppure a imparar l’arte di governare si avrebbe un sicuro successo.
Per fortuna l’erba non è tutta in un fascio ma la tendenza c’è nella quantità sufficiente a preoccupare.


L’abitudine a non mantenere le promesse elettorali nasce a causa di un fondano. Un magistrato che a Roma fece promulgare una legge che aveva ottime intenzioni ma che si rivelò nostro malgrado difettosa, poiché imprigionò gli elettori nei secoli a venire in un tristissimo tranello che pare più una maledizione giacché è eterno.

Marco Alfidio Lurcone in un bel giorno di primavera decise far scorazzare nel suo giardino a Fondi alcuni esemplari di pavone. Non fu per diletto. Ma per lucida lungimiranza. Il suo diventò il primo allevamento della specie in tutto l’impero. E dato che quell’uccello esotico all’epoca pare che andasse di moda nella pavoneggiante nobiltà, Lurco diede modo alle genti della sua terra di trarre giovamento da un fiorente interesse commerciale proprio grazie ai suoi pavoni. Dai pavoni alla frutta, oggi poco cambia. I fondani hanno talento per il commercio. Meno per la magistratura. Ma pure in politica non scherzano. Lurco (nonno tra l’altro della prima imperatrice romana Livia, moglie dell’imperatore Augusto, mica cotica) promulgò la Lex Alfidia de ambitu in qualità di tribuno della plebe. In sostanza questa legge stabiliva che i candidati non potessero dare soldi agli elettori in cambio del loro voto. Pena la multa di tremila sesterzi (circa seimila euro). Che se c’è la necessità di fare una legge del genere già vuol dire che il voto di scambio era bell’e radicato. Per non parlare dei luculliani o ancor pantagruelici pranzi ché quando c’è la fame il voto non si nega a nessuno ora, figuriamoci quando si stava peggio. Un male primordiale, incurabile.
Ma quella legge era maledetta. Se il politico prometteva di dar soldi all’elettore dopo la sua elezione e poi non lo faceva era, sentite qua, esonerato dalla multa.
Va da sé che l’abitudine a far grandi promesse da burattino in campagna elettorale divenne prassi. A danno solo dei poveri elettori. Che però santo cielo aprissero gli occhi una volta.


Ecco questo tanto per farsi un’idea di quanto, nel bene e nel male, siamo vicini, oggi, a chi al governo ci è salito più di duemila anni fa.

sabato 25 maggio 2013

Storia di una giornalista intervistata e di un camaleonte vanitoso


«Per fare questo mestiere ci vuole un pizzico di vanità». 
Lo diceva Lidano, il direttore della testata dove ho imparato a fare giornalismo

Ogni giorno avevo le palpitazioni, l'ossessione del foglio bianco, le mie pagine da riempire. E questo mi faceva sentire terribilmente viva. Quando vedevo il mio lavoro, il giorno seguente, pubblicato, impaginato e firmato da me la soddisfazione era al culmine. E si ricominciava.

Ho imparato a non tremare davanti alla telecamera e a fare della sana autoironia anche in tv. 
Il piacere di realizzare qualcosa di esclusivamente mio e bello proprio per questo, con tutti i difetti che umanamente si hanno, era senza paragoni.

Dunque un po' vanitosa la sono, non lo nascondo. E credo sia un pregio che mi permette di muovermi con sicurezza dietro al teleschermo, avere il coraggio di firmare il mio lavoro e, per l'appunto, metterci letteralmente la faccia.

È per questo che oggi sono fiera di condividere l'articolo a tutta pagina di una collega e amica, Maria Corsetti, a cui molto devo della mia formazione televisiva, per il lancio del mio ebook: "Come costruirsi una strategia di comunicazione di successo" edito da AbelBooks.

La pagina è tratta dal periodico "Latina per strada". Buona lettura.



sabato 18 maggio 2013

Spot ultramilionari e call center inefficaci: il paradosso delle grandi aziende di telecomunicazione



Quanto è efficace una campagna pubblicitaria se la strategia di comunicazione non contempla investimenti nelle relazioni umane?

Prendiamo le grandi aziende di telecomunicazione italiane. Le maggiori investono capitali enormi in spot pubblicitari e vari canali mediatici a supporto di queste. 
È incredibile lo sforzo finanziario che impiegano per sfoggiare il miglior testimonial, musiche e slogan martellanti. Quel che succede è che vengono raggiunti un gran numero di potenziali utenti i quali imparano a conoscere e riconoscere quel marchio ovunque.

La storia pubblicitaria di Telecom è davvero affascinante. Da ieri ad oggi le sue campagne pubblicitarie hanno emozionato cogliendo il senso più profondo di "comunicare". 
Alcuni esempi: 

"Le emozioni non cambiano. Il modo di comunicarle sì" (2011).



e il più recente "Comunicare, connettersi, vivere" (2013) dove il colosso della telefonia fa scomodare addirittura il buon Martin Luther King.



Il concorrente Vodafone non è da meno. Con i suoi spot spumeggianti di testimonials dai cachet da capogiro è uno dei marchi più imponenti sul panorama mediatico.


Questo uno degli spot andati in onda per il Natale 2006 con Totti e Gattuso.



E come può sfuggire l'onnipresente pinguino che ruba la voce ad Elio per insinuarsi senza pietà nei padiglioni auricolari di tutti?


Senza scomodare gli altri operatori che pure non lesinano sugli investimenti pubblicitari il pubblico ha un'idea di quale sia la presenza costante della comunicazione istituzionale di ciascuno di essi.

Tuttavia basta una telefonata al call center dell'operatore al quale si è interessati e il mondo di cui hanno cercato di farci innamorare attraverso le campagne pubblicitarie milionarie crolla davanti alle nostre orecchie. Paradosso.

L'esperienza più recente che ho avuto mi ha letteralmente traumatizzata. Posso ipotizzare che a fine giornata la signorina che ha preso la mia telefonata fosse stanca e magari frustrata da una vita e uno stipendio poco soddisfacenti. E probabilmente è così. Lungi dal voler giustificare o analizzare i problemi dell'operatrice piuttosto mi chiedo per quale motivo queste grandi aziende non investano nella qualità delle relazioni con gli utenti, che sono la loro fonte di guadagno.

È probabile che in un call center gli operatori siano formati per vendere: essenziale. Tuttavia è abbastanza chiaro che non siano formati per comunicare. Il che significa che dovrebbero saper vendere senza saper comunicare. Cosa che non solo trovo grave specie da parte di un'azienda che vende comunicazione ma soprattutto incredibile perché è a grande svantaggio della stessa azienda.

Come ho più volte sottolineato nei miei articoli e ribadisco nel mio breviario "Come costruirsi una strategia di comunicazione di successo" (AbelBooks) per ottenere successo da una strategia di comunicazione e riceverne benefici è fondamentale conquistarsi la fiducia dei propri clienti o potenziali tali. Per arrivare a ciò bisogna tenere presente il principio di verità. Che in questo caso significa: comunicare valori che l'azienda per prima deve applicare. Altrimenti il mondo costruito negli spot ultramilionari crolla nello stesso istante in cui l'utente entra in contatto con l'operatore. Formato, come abbiamo detto, per vendere e non per comunicare con le persone. Che è la sua principale attività.

Recentemente tutti i call center hanno inserito una modalità di controllo degli operatori, una sorta grande fratello della telefonia per cui tutte le chiamate vengono monitorate e registrate per poi essere analizzate a campione. A volte capita anche che l'utente venga ricontattato dall'azienda che lo interroga sulla trattativa avuta con l'operatore.
Una strategia del terrorismo che alimenta la frustrazione degli operatori e non insegna loro ad adottare le strategie più efficaci per ottenere l'attenzione dell'utente, ascoltare i suoi bisogni e soddisfarlo non solo attraverso corrette informazioni ma anche con un corretto atteggiamento relazionale che genera fiducia, affidabilità, fidelizzazione e stima anche laddove può esserci un problema difficile da risolvere.

Se le compagnie telefoniche investissero in una formazione sulla comunicazione interpersonale nei call center e in tutti i punti di contatto con i clienti ne ricaverebbero certamente ottimi risultati nelle vendite. 
Comunicare, connettersi, vivere, no?









martedì 14 maggio 2013

Come costruirsi una strategia di comunicazione di successo




Vi presento la mia creatura: un piccolo manuale ad uso di tutti, per poter imparare a comunicare la propria immagine e quella della propria attività.


Lo scopo di questo manuale è quello di fornire al lettore gli strumenti basilari per costruirsi autonomamente un’immagine di successo, applicando la struttura delle strategie di comunicazione pubblicitaria alle esigenze di liberi professionisti, freelance, politici. Insomma di chiunque voglia promuoversi da sé. 
Non si sentano esclusi i creativi. Anzi. Questa guida sarà molto più utile alle menti che brulicano di idee. Fornisce infatti le basi strutturali per poter permettere alla creatività di esprimersi al meglio. Poiché anche le idee più grandiose, se non seguono un tragitto preciso, finiscono in una nuvola di fumo. E non mette al bando gli altri. Semplicemente perché tutti, nessuno escluso, abbiamo un potenziale creativo.
Un passo alla volta potrete sperimentare su voi stessi la strategia che più si addice al vostro progetto professionale.


Questo il link per scaricarlo. Consigli efficaci ad un prezzo piccolissimo: meno di 5 euro!

http://www.ultimabooks.it/come-costruirsi-una-strategia-di-successo#descrizione

lunedì 6 maggio 2013

Antonio Mattia e il finto nudo della Boldrini. Un caso politico? Una lacuna legislativa da colmare?

Antonio Mattia
«La mia idea è quella di riunificare la destra sociale, di ridare vita ad un partito che si collochi a destra del Pdl». Antonio Mattia, il giornalista indagato per la condivisione sui social network della finta foto nuda del Presidente della Camera Boldrini, non ha mai nascosto le sue idee politiche. Anzi, poco tempo fa ha iniziato ad immaginare la rifondazione di un partito di estrema destra, magari con Francesco Storace.
C'è un nesso? Vediamo di capirci qualcosa.

«Domenica - racconta il giornalista napoletano residente a Fondi - ero con dei colleghi e abbiamo deciso di fare un test su Facebook. Volevamo capire quanto gli italiani siano morbosi. Quale sarebbe stato l'effetto, cioè, che avrebbe suscitato la foto del nudo (che tutti sapevano essere un fake, tra l'altro) della Boldrini rispetto ad una, che so, di David Rossi, il responsabile comunicazione del MPS morto suicida. Ebbene le abbiamo condivise entrambe. Il risultato? Nel giro di otto ore la prima è stata condivisa 2376 volte e ha generato 116 richieste di amicizia. La seconda zero condivisioni e 3 "like"». 
Una parte della foto incriminata
C'è da dire inoltre che la foto incriminata era già presente sul web e su Facebook. «L'avevo condivisa da un altro utente» spiega.

Perché indagare chi condivide il post e non risalire a chi lo ha generato? Perché, se si segue questo criterio, non indagare almeno le altre 2376 persone che hanno fatto lo stesso?
Secondo "Repubblica" e "La Stampa" Antonio Mattia sarebbe indagato per aver travalicato «i limiti della corretta informazione, oltrepassando il legittimo diritto di cronaca e di critica giornalistica» malgrado Facebook non sia una testata giornalistica e la condivisione di un post, fortunatamente per l'ordine professionale, sia ben lontana dalla redazione di un articolo.

Ci sono tutti gli estremi, insomma, per suscitare la curiosità di chi fa questo mestiere e si pone continuamente delle domande.
Una risposta possibile, nulla più che un'ipotesi lui ce l'ha. «È possibile che qualcuno abbia deciso di monitorare le attività "filo-fasciste" sul web e di remprimerle» sostiene.
E se si trattasse davvero di una strategia repressiva, sarebbe davvero efficace? Con questo esempio dopotutto il nome di Antonio Mattia è balzato alle cronache nazionali, ha invaso tele, radiogiornali, blog e testate.
Inoltre: siamo davanti ad una questione normativa che ha bisogno di essere affrontata. 
I nuovi mezzi di comunicazione danno la possibilità a chiunque di pubblicare opinioni, contenuti e notizie, non solo ai professionisti del giornalismo. 
È necessaria una riforma della legge sul diritto di cronaca? È necessario legiferare in merito a quanto viene pubblicato sulle reti sociali e sul web? 
Non esiste alcuna regolamentazione nazionale in merito ai contenuti condivisi sulla rete. 
Il reato di diffamazione è dunque imputabile a chiunque usi i social network o solo ai giornalisti? 
È indispensabile a questo punto costruire delle risposte.






lunedì 15 aprile 2013

Politica, le relazioni nel partito: arma a doppio taglio per la comunicazione elettorale.

La comunicazione politica italiana andrebbe affrontata su due livelli.
Il primo riguarda la sfera pubblica. Ed è quello su cui tutti i consulenti in comunicazione generalmente sono concentrati. Gli addetti stampa, i portavoce sono lì per consigliare come dire cosa e a chi. Per lo più attraverso i mezzi di comunicazione più comuni. 
Il secondo livello è solitamente poco considerato dai professionisti della comunicazione. 
Riguarda infatti la gestione delle relazioni e della comunicazione interpersonale all'interno della sfera politica o istituzionale. 
È certamente capitato a molti di doversi confrontare con scelte di comunicazione pubblica condizionate, per dirne una, da "quel che può pensare il collega dello stesso partito" e le conseguenze che ne potrebbero derivare. Questione di equilibrio tra le relazioni che è necessario evidentemente mantenere. 
Non v'è dubbio che sia importante conservare la fiducia di entrambi gli interlocutori (l'elettore e il collega): il primo perché è colui da cui dipende l'acclamazione pubblica e, dunque, il voto; l'altro per il successo del gruppo politico di appartenenza e della propria carriera.
La soluzione più agevole sta nel saper gestire entrambe le attività di comunicazione nella più assoluta franchezza. Cosa non facile per il politico italiano, ma certamente fruttuosa per il proprio interesse, quello del proprio partito e del progetto politico condiviso.
Gestire le relazioni interne, adottare una strategia di comunicazione fondata su ascolto, trasparenza e fiducia sostiene la condivisione degli obiettivi ed i messaggi trasmessi al pubblico diventano inevitabilmente più incisivi, coinvolgenti ed efficaci. Il gruppo, sentendosi coinvolto, funge da cassa di risonanza. È opportuno però che ogni caso venga affrontato singolarmente, con l'affiancamento di consulenti specializzati anche sui meccanismi relazionali. 
È noto tra l'altro che nel nostro Paese le relazioni all'interno di uno stesso partito di fatto oggi sono tutt'altro costruttive. Entrano in gioco rivalità, interessi personali e competizione. 
Ma laddove le relazioni umane trasparenti prendono il posto di sotterfugi e stratagemmi improvvisati per sostenere solo il proprio personale tornaconto i risultati possono essere strabilianti. L'immagine del partito e quella di ciascun rappresentante ne guadagnerebbe nei confronti del pubblico e dunque dell'elettorato. 
Infine, anche il nostro consulente in comunicazione avrebbe una qualità di vita decisamente migliore.




venerdì 5 aprile 2013

Staminali e Sofia. La scienza contro la mobilitazione mediatica. Un problema di comunicazione?




Il monito di Salvo Di Grazia, medico e blogger de Il Fatto Quotidiano, è chiaro: "Staminali, la scienza impari a comunicare la speranza". 

Che l'autore riconosca la necessità di un buon apparato comunicativo a sostegno del settore medico scientifico non può far altro che piacere. Una buona o cattiva comunicazione è determinante per l'esito di qualsiasi impresa. Figuriamoci quando si tratta di malattie gravi, di bambini, di casi di vita o di morte.

Credo che avere la possibilità di accedere ad informazioni sicure, autoritarie e concrete in campo medico-sanitario sia un diritto fondamentale per ciascun cittadino

Sofia è una bambina affetta da una malattia degenerativa letale, il cui caso è venuto a galla grazie al servizio giornalistico di Giulio Golia, delle Iene, trasmissione televisiva d'inchiesta e intrattenimento. 

L'unica possibilità di sollievo per la piccola Sofia sono le iniezioni di cellule staminali. Che non si sa bene che effetto avranno perché la sperimentazione scientifica non è ancora terminata. Magari non la salveranno. Ma per ora sono l'unico metodo per tenerla in vita ed ottenere perfino piccolissimi miglioramenti. I dati sono empirici ma basati sugli effetti osservati su un unico caso giorno dopo giorno e non sono certo sufficienti a fornire le statistiche necessarie ad approvare una cura.

Eppure, la sola alternativa è la morte. Questo concetto è stato espresso in maniera molto chiara da Golia fin dal primo servizio dedicato a Sofia. Che non ha mai messo in dubbio la necessità e l'importanza di un ricerca scientifica. Ha avuto cura e premura nel sottolinearlo. 
Ed è un dettaglio che per me fa la differenza tra professionisti e ciarlatani.

Senza questa premessa, come professionista, non avrebbe mai potuto chiedere al governo e all'opinione pubblica di mobilitarsi per permettere che venissero concesse le iniezioni a Sofia. 

Sono d'accordo con Salvo Di Grazia quando sostiene che "non possiamo lasciare il futuro (non solo sanitario) dei nostri figli, alle scelte fatte “per acclamazione” o peggio in base agli ascolti televisivi"
Non credo però che una simile osservazione sia pertinente a questo caso. 

C'è effettivamente un problema di comunicazione nel mondo scientifico. Ma non è rispetto all'emissione di informazioni. Lo è rispetto alla ricezione.

Quando in un evento comunicativo uno dei due protagonisti non è pronto ad ascoltare la conseguenza minore che può verificarsi è che si generi un malinteso. Cosa che credo sia avvenuta tra il giornalista e i medici.
È necessario che la ricerca scientifica ed i suoi rappresentanti abbiano autorità assoluta nel loro settore. Non è compito di giornalisti né dell'opinione pubblica decidere quale cura sia opportuna per un paziente. 

Ma quale rischio più grosso della morte avrebbero potuto correre Sofia e i malati nelle sue condizioni assumendo cellule staminali? Questo concetto è arrivato a me come pubblico televisivo.

Non sono un medico ma credo di poter dire con una certa sicurezza che conseguenza più grave del decesso non esiste

Suppongo sia per questo che tutti si sono mobilitati per Sofia pur non avendo alcuna autorità medico-scientifica. Per lo stesso motivo, infine, credo, le siano state concesse le cure. 
E non perché il suo caso ha fatto commuovere l'Italia attraverso una trasmissione televisiva, come certamente è accaduto. Ma non è stata questa la ragione per cui le sono state concesse le cure.


mercoledì 3 aprile 2013

L'Aquila. La comunicazione può uccidere. Condannata la Commissione Grandi Rischi.

Un lettore mi ha segnalato il caso, che trovo molto interessante ai fini dell'analisi delle conseguenze che una cattiva comunicazione o una comunicazione non strutturata strategicamente, può provocare.
Spesso non ci rendiamo conto di quanto siano importanti, e in alcuni casi perfino gravi, queste conseguenze. Perciò è importante rilevare i casi più esemplari.

Quattro anni fa, il 6 aprile del 2009, si scatenava in Abruzzo uno dei più disastrosi terremoti della storia italiana più recente.
Da subito l'opinione pubblica si è chiesta se un simile evento avrebbe potuto essere previsto dagli esperti. Certamente, nessun terremoto può essere previsto. La gente però aveva bisogno di essere rassicurata. Ed è stato quello che ha fatto la Commissione Grandi Rischi, secondo il giudice Marco Billi, il quale ha condannato i componenti di quella commissione, lo scorso gennaio, per false rassicurazioni.

La Commissione aveva dato alla gente quello di cui in quel momento aveva bisogno: rassicurazioni.

Il punto è che quelle rassicurazioni non erano fondate su dati reali.

Uno dei principali criteri su cui deve basarsi qualsiasi evento comunicativo, per avere esiti positivi e produrre successo a tutti i livelli è la verità*. Non la verità nuda e cruda. Ma quella che corrisponde a ciò che, in questo caso specifico, gli studiosi erano in grado di dichiarare per le informazioni concrete di cui erano in possesso. Poteva trattarsi di dati, statistiche ma non, certamente previsioni.

Che fossero rassicuranti o disastrose, gli esperti della Commissione non avrebbero potuto rilasciare nessuna dichiarazione in merito a come la terra si sarebbe comportata. Quello che poi è accaduto è che la terra ha tremato ancora. Portando morte e distruzione.

Il caso è tornato a galla con la sentenza dello scorso gennaio e la successiva pubblicazione del libro di Antonello Ciccozzi: Parola di Scienza - Il terremoto e la Commissione Grandi Rischi. Un'analisi antropologica (DeriveApprodi), un giovane antropologo nominato consulente della Corte che ha giudicato la Commissione. 

«La diagnosi fatta dagli esperti - precisa l'antropologo - ha avuto effetti disastrosi perché, grazie al potere persuasivo dell'autorità della scienza, ha prodotto una rappresentazione sociale rassicurante che ha pervaso il senso comune, riducendo la percezione del rischio e causando, insieme alla vulnerabilità degli edifici, la perdita di vite umane».

Lo studio di Ciccozzi è stato decisivo nella formulazione della sentenza. «I pm Fabio Picuti e Roberta D'Avolio - dichiara l'autore in un articolo di Repubblica - hanno deciso che per comprendere questa vicenda era necessario definire come la diagnosi fornita dagli esperti avesse interagito con la cultura antropologica del luogo. E alla fine anche il giudice ha accolto quest'interpretazione. Nessuno si aspettava la condanna, che poi c'è stata».

Un secondo errore è stato poi fatto dall'opinione pubblica. L'idea che tutti hanno avuto è che la Commissione Grandi Rischi fosse stata messa sotto accusa per "mancato allarme" e cioè per non aver previsto il terremoto



«Cinquemila scienziati - spiega Ciccozzi - hanno firmato un appello contro l'idea che si processassero degli scienziati per non aver previsto un terremoto. Un appello così lo avrei firmato anch'io, ma nella realtà quell'appello è una mistificazione. È bene ripeterlo: il processo non era per non aver previsto il terremoto, ma per aver previsto che non ci sarebbe stato nessun terremoto, non per "non aver allarmato" ma per aver rassicurato».



*(Troverete riscontro di una possibile struttura di un piano di comunicazione nel mio manuale di prossima pubblicazione per AbelBooks Come costruirsi una strategia di comunicazione di successo).

martedì 26 marzo 2013

Sintonizzarsi con il pubblico. Strategie per una frequenza di successo.

Si ha impatto sul proprio pubblico quando si è ottenuto un buon grado di sintonizzazione.

Ci si sintonizza su una stazione radiofonica quando si modulano le frequenze sul nostro apparecchio in modo da poter ottenere un flusso di informazioni chiaro e pulito. Che permette di ascoltare buona musica, per esempio. E permette al mittente di far arrivare al destinatario le sue trasmissioni attraverso il canale radio.

In qualsiasi altro evento comunicativo è bene che il mittente e il destinatario siano sintonizzati sulla stessa frequenza, altrimenti non può esservi alcuna comunicazione.

La sintonizzazione di Papa Francesco, per prendere l'esempio più evidente e attuale, è decisamente efficace. E ha a che fare su una modulazione di frequenza impostata prima di tutto sull'abbattimento di alcune barriere che impediscono nella maggior parte dei casi, la fluidità del messaggio.

Il più acerrimo nemico della comunicazione è la paura. Uno strumento di difesa naturale che l'essere umano possiede per difendersi davanti ad un pericolo. Spesso, però, specie nel caso della comunicazione interpersonale, questo pericolo non viene affrontato. Ma semplicemente evitato. Così il mittente e il destinatario non trovano la stessa frequenza. Il contenuto reale del messaggio resta non detto e la comunicazione fallisce.

Ciò che è importante fare, dunque, prima di arrivare alla diffusione di un messaggio è costruire la propria strategia tenendo conto anche di ciò. 

Sintonizzarsi significa però anche dare valore ai bisogni del destinatario. Qualsiasi canale comunicativo che si voglia instaurare con il proprio pubblico deve interessare quest'ultimo, altrimenti sarà impossibile catturare l'attenzione dei nostri interlocutori.

È un po' quello che ha fatto Francesco, uno che tutto fa tranne che improvvisare. Dietro ogni suo gesto, ogni sua parola o discorso si disegna una strategia precisa. Che ha raggiunto potentemente obiettivi prima impensabili. La gente chiedeva con insistenza che la Chiesa fosse povera, coerente con ciò che predica. Per dirne una. E lui, prima di comunicare con le parole, ha costruito il suo canale attraverso gli esempi e i gesti sulla base di quelle che erano e sono le necessità del suo pubblico.

Ha valutato attentamente i reali rischi da cui le paure antiche dell'istituzione religiosa mettevano in guardia. E ha compreso, mettendo sullo stesso piano i pro e i contro di una comunicazione sintonica, che sia lui che la Chiesa ne avrebbero solo giovato.

È fondamentale dunque che un consulente in comunicazione, dopo aver instaurato un rapporto fluido con il proprio committente, come ho spiegato nel precedente articolo, conosca le dinamiche interne all'azienda, al partito politico o al servizio per il quale è chiamato ad operare. Solo in questo modo potrà costruire una strategia di comunicazione davvero efficace e raggiungere un obiettivo di sicuro successo.


(Nella foto: Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, di Maurizio Cattelan)

martedì 19 marzo 2013

Il primo ostacolo del comunicatore è il suo committente. Papa Francesco insegna.

Il primo nodo che un consulente di comunicazione si trova a dover sciogliere è il rapporto con il suo committente. Ossia il responsabile del servizio o del prodotto oggetto del progetto di comunicazione di cui è stato incaricato.

L'esigenza di riformare la professione di comunicatore parte esattamente da qui.

Troppo spesso, infatti, portavoce e addetti stampa si trovano ad eseguire un compito così come gli viene  commissionato. Perché conviene, diciamolo chiaramente, accontentare il proprio committente. Sarà, ci diciamo, più contento del servizio. Noi avremmo fatto quello che lui ci ha chiesto e lui pagherà la prestazione con piacere. 

Ma. Se il nostro cliente fosse così bravo a comunicare non avrebbe certo bisogno di arruolare un professionista. La maggior parte delle volte le scelte comunicative assunte per accontentare il cliente si rivelano in realtà inefficaci. Lui sarà contento perché abbiamo sostenuto le sue idee. Ma noi avremmo mancato l'obiettivo reale. Che poi è il motivo per cui siamo lì.

Una riforma del sistema comunicazione deve dunque partire dal presupposto secondo cui un professionista della comunicazione deve proporre strategie mirate al raggiungimento degli obiettivi. Deve sostenere il suo progetto anche di fronte al proprio cliente e instaurare prima di tutto con lui una relazione di fiducia reciproca. Mostrandogli così la differenza effettiva tra un sistema di comunicazione davvero efficace e l'altro solo apparentemente.

Una relazione di fiducia si instaura se esiste prima di tutto un canale relazionale fluido tra il comunicatore e il suo cliente. Dunque il lavoro inizia a monte. Se un comunicatore è in grado di far comunicare gli altri deve prima di tutto essere in grado di ottenere efficacia nella comunicazione con il proprio committente.

Torno a prendere a esempio il nuovo Papa. Un caso in cui l'oggetto della comunicazione diventa modello per i professionisti del settore. La sua voce ha rotto con il sistema tradizionale di addetti stampa e compagnia. È stato lui a dimostrare che comunicare secondo quanto impone il sistema Chiesa non è affatto utile al raggiungimento del principale obiettivo dell'istituzione religiosa: conquistare i fedeli. E  ha fatto a modo suo.

L'orda di comunicatori vaticani che si affanna quotidianamente a scrivere comunicati stampa e discorsi affettati stava infatti accontentando un vecchio sistema che si è rivelato definitivamente inefficace. Uno staff formato da professionisti patinati adagiati su quanto veniva chiesto loro di fare. Perché, certamente, osare avrebbe significato scardinare le paure ataviche della Chiesa. E nessuno se non un Papa, avrebbe potuto farlo. 

Ecco. Papa Francesco ha sconfitto la paura e si è messo in relazione con il resto del mondo. Per farlo ha dovuto "sintonizzarsi" con la gente.

Di "sintonizzazione" parleremo prossimamente.
Intanto ragioniamo sul modello del Papa. Se ha osato ed ottenuto, per ora, enormi vantaggi sull'obiettivo vaticano perché dunque non osare anche in politica
L'esigenza di una riforma c'è. E può partire dalle strategie di comunicazione.

domenica 17 marzo 2013

Il"buonasera" di Papa Francesco è più efficace di un comunicato. È ora di riformare anche la comunicazione.


Una parola di Papa Francesco ha più presa di un comunicato stampa. Eppure il Vaticano non manca di professionisti della comunicazione, cresciuti a pane a parole.
È arrivato il momento di fare il punto sulla figura del comunicatore professionista, sul suo ruolo all'interno di un'organizzazione (in questo caso la Chiesa) e sulla reale efficacia del suo lavoro.

Papa Francesco ha dato uno schiaffo al protocollo ecclesiastico, comunicazione compresa.
I suoi "buonasera", "buona domenica e buon pranzo", "avete lavorato eh?", i suoi discorsi e le omelie a braccio conquistano più di qualsiasi strategia costruita a tavolino da un intero staff di professionisti. 

Quando, ricevendo seimila giornalisti, ha provato a leggere il discorso preparatogli da chi di dovere, non ha resistito più di due righe: ha stracciato il foglio e si è messo a parlare a cuore aperto.
Non si sentiva a suo agio con quel metodo. Perché sapeva che non era quello il modo migliore per conquistare e farsi capire dal suo pubblico.

Troppo spesso, ormai, comunicare significa semplicemente dire qualcosa, trasmettere un messaggio ben confezionato, grammaticalmente corretto e perfino adeguato al contesto. Creare un prodotto perfetto.
E la sua efficacia? A cosa serve dire qualcosa se il messaggio non è orientato all'interlocutore?

Praticamente a nulla. Lo hanno dimostrato fiumi d'inchiostro sprecato in discorsi scritti come si deve, che ostentavano una condotta impeccabile, una dignità ed un rigore che si credeva adeguati alla magnificenza della Chiesa. 
Tutte balle.
L'effetto in realtà è stato devastante. La gente invece di avvicinarsi alla Chiesa si allontanava. L'autoreferenzialità pone una barriera tra il mittente e il destinatario. Così quello che si ottiene è il contrario di ciò che si vorrebbe, ovvero comunicare

L'individuo che non è considerato parte importante e attiva in una relazione che prevede uno scambio di informazioni perde fiducia nel suo interlocutore. E quel miracolo chiamato dialogo s'interrompe.

È da quel dì che nessuno ha il coraggio di sintonizzarsi sugli interlocutori, Chiesa in primis. Qualche post fa lo avevo scritto e lo ribadisco: Ratzinger ha avviato una rivoluzione consapevole, anche di questo.

Tant'è che Francesco ha sbaragliato. È il comunicatore carismatico per eccellenza. Parla come Cristo, come il Santo d'Assisi comunicava con il creato perché percepisce i bisogni degli individui, non teme confronti e si sintonizza perfettamente con i suoi interlocutori. Sa che andare incontro alle persone non può essere pericoloso e non può portare che benefici. Per farlo, certamente, deve essersi costruito un'integrità personale non indifferente.

Questo fa di lui un esperto di comunicazione molto più scaltro e funzionale di una schiera di professionisti contemporanei. 

Cercheremo di capire nei post successivi, quali sono i vantaggi di un evento comunicativo in cui mittente e destinatario sono sintonizzati e quanto i comunicatori possono imparare dall'esempio di Papa Francesco.

giovedì 14 marzo 2013

14.3.2013. Papa Francesco nei titoli dei quotidiani italiani.

"Fratello Papa". Il Secolo XIX sintetizza tutto il carico di significato della scelta del cardinale Jorge Mario Bergoglio di assumere il nome del Santo d'Assisi (dialogo alla pari, povertà materiale e ricchezza di spirito). E probabilmente è quello che in questo momento colpisce più di tutti.
Non all'altezza del precedente "Il Pastore tedesco", il Manifesto gioca con la canzone di Battisti e propone un "Non è Francesco" precauzionale.
Repubblica punta sul rinnovamento della Chiesa, Europa sulla riconquista della fiducia. Il Corriere sottolinea l'effetto sorpresa.
Una carrellata di parole che ricostruisce i sentimenti percepiti e le riflessioni generate nel corso dell'elezione del Papa, la sera del 13 marzo 2013.
























lunedì 11 marzo 2013

Iene vs Conclave. La Chiesa che non sa comunicare.




Pare una cosa banalissima.

Eppure comunicare è una di quelle azioni che meno vengono bene alla gente. Se così non fosse innanzitutto io non avrei bisogno di affannarmi in questa missione. In secondo luogo, però, si assisterebbe a dei piccoli grandi miracoli quotidiani.

Come dire: "mica siam qui a colorare le api sull'abecedario". Abbiamo un compito preciso: quello di portare consapevolezza e di massimizzare i benefici delle relazioni comunicative secondo alcuni passi fondamentali.

Non c'è comunicazione, d'altronde, senza relazione
Due persone o entità, per poter comunicare hanno bisogno di relazionarsi. Deve esserci un contenuto, un canale, un emittente ed un destinatario. Ma questo lo sappiamo da quel dì. 
Quello che non sembra esser compreso invece dagli attori della vita sociale e politica mondiale sono alcuni presupposti imprescindibili alla comunicazione efficace. Parliamo di disponibilità. All'ascolto, per esempio. Un principio essenziale che dà immediatamente senso al buon esito di un evento di comunicazione.

Trovo molto interessante a tal proposito ciò che sta accadendo in questi giorni di fermento per l'elezione del Papa.
Qualche articolo fa ho accennato con ottimismo alla possibilità di interpretare come strategia promettente la decisione di Benedetto XVI di lasciare il Papato.
Secondo quell'analisi, l'ex Pontefice avrebbe preso una decisione seguendo criteri di ascolto dei bisogni della gente e di autocritica rispetto alla condizione della Chiesa. Chapeau.
Ora.
Osserviamo il grande lavoro di supporto all'informazione che sta svolgendo il programma di Italia Uno "Le Iene" proprio nella settimana del Conclave.
I cardinali rifiutano di esprimersi sul tema della pedofilia vaticana davanti alle telecamere. Davanti cioè a quel canale che trasmette il messaggio ad un pubblico vastissimo, una bella fetta dei fedeli italiani.

Da un lato le vittime degli abusi che raccontano il loro terribile vissuto. Dall'altra i porporati che dovrebbero rappresentare nella sua più alta espressione: la Chiesa. Che, tralasciando le numerose perplessità personali, dovrebbe rappresentare la religione di Cristo, un uomo povero tra i poveri, mai reticente, generoso, comprensivo, amorevole. E via dicendo.
Insomma, uno che non aveva bisogno certamente di esperti in comunicazione per poter godere di un successo durato almeno 2013 anni.
La considerazione obiettiva è che il Conclave non è pronto ad ascoltare.
E di conseguenza non è pronto a comunicare.
E ancora non è in grado di avviare un profondo restauro della Chiesa, quello auspicato da tutti, Ratzinger (con il beneficio del dubbio)  in testa.

Ci sono davvero delle controindicazioni ad esprimersi davanti ad una telecamera?
L'impressione, che sia sbagliata o meno, che i Cardinali hanno dato in tv, è stata drasticamente controproducente ad una politica di ascolto della gente, di ammissione delle proprie colpe, di confronto costruttivo. Volto ad conquistare la fiducia degli uomini e a crescere insieme.
Quali sono i rischi che la Chiesa corre? E quali sono i suoi reali obiettivi?
Nulla, a quanto pare, che abbia a che fare con una vera, profonda e convincente ricostruzione.



giovedì 7 marzo 2013

Grillo e la strategia del pulcino. Una riflessione su imprinting e relativismo in politica.

Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, diceva il buon Socrate.
Quando Konrad Lorenz definì l'imprinting, a esempio, lo fece dopo aver osservato il comportamento di alcune specie animali. Poi vinse il Nobel.

Prendiamo i pulcini. È provato che se nei primi secondi immediatamente dopo la nascita osservano un solo individuo, chiunque esso sia, (perfino un uomo) loro riconoscono in lui la propria madre. L'imprinting è presente anche nei mammiferi e, seppur con peso inferiore, nell'uomo.

Ora, tenendo conto di ciò, le nostre ricerche possono andare avanti, abbracciare il comportamento umano e giungere ad alcune riflessioni che possono interessare le strategie di comunicazione e finanche la direzione dei movimenti politici.
Riflessioni che possono servire ad avere una maggiore consapevolezza sulle scelte di elettori e candidati, di linguaggi e obiettivi. E magari consentire ai professionisti interessati di effettuare scelte definitivamente più autonome.

Teniamo conto che l'imprinting condiziona il comportamento dell'esemplare per tutto l'arco della sua vita. Le sue scelte, dalla ricerca del partner all'accoppiamento, alla vita di relazione alla ricerca del cibo, fanno affidamento anche sulla buona riuscita del l'imprinting.
Ma cosa può avere a che fare una simile scoperta con la comunicazione politica?
Uno step alla volta ci arriviamo.

Secondo Dan Ariely, appassionato ricercatore del comportamento umano specie in riferimento alle scelte che condizionano il mercato, le decisioni dell'uomo non sono mai frutto di una sua libera e consapevole scelta.

A meno che.

A meno che non diventi davvero cosciente dei suoi imprinting. Ariely prova, attraverso numerosi esperimenti, che l'imprinting condiziona tutte le nostre scelte. Pare che il nostro cervello sia dotato di una sorta di memoria nella quale vengono impresse le prime esperienze, di qualsiasi genere esse siano. Non solo dunque quella legata al riconoscimento del genitore.
A quanto pare il fenomeno si propone quando vediamo associato per la prima volta un prezzo ad un determinato prodotto. Quel prezzo funge, nella nostra memoria, da àncora. Qualsiasi altra variante incontreremo rispetto a quello stesso prodotto, la paragoneremo sempre alla nostra prima esperienza, al primo prezzo, all'imprinting.

Insomma questo è il punto cruciale del nostro ragionamento. Che conduce ad un concetto inevitabile: quello del relativismo.

Tutto ciò che accade nella nostra vita non è dovuto a scelte assolutamente libere ma è inevitabilmente relativo. Frutto, in parole povere, di preconcetti. Ma attenzione: preconcetti difficili da sradicare se non si coglie fino in fondo il motivo della loro esistenza, ossia l'imprinting che li ha generati.

Arriviamo dunque a riflettere sulle scelte politiche.
Non c'è esempio migliore di ciò che è sotto gli occhi di tutti in Italia. Siamo nel mezzo di un mutamento radicale della geografia politica. Il popolo ha deciso a chi dare il proprio voto sulla base delle esperienze acquisite al governo negli ultimi anni. È in riferimento a quel modo di gestire la politica e la cosa pubblica (l'àncora) che è nato il Movimento Cinque Stelle, per esempio.

E allora dove sta la vera innovazione? Non c'è in realtà. Il M5S non è un partito nato da una libera scelta. E, probabilmente per questo motivo (azzardo una previsione) non potrà avere il successo che promette. Ciò non vuol dire che le altre scelte degli elettori non siano state condizionate. Anzi. Tutto, davvero tutto, dipende dall'esperienza che gli elettori hanno usato il 24 e 25 febbraio 2013, come termine di paragone. Sempre più frequentemente può capitare di sentirsi dire: "Ho votato il male minore", questione di triste relativismo.

Cosa potrebbe dunque fare un professionista della comunicazione in questo caso?
Innanzitutto valutare la sua strategia con la maggior consapevolezza possibile, tenendo conto del relativismo delle scelte. Tentare di tradurre la stessa consapevolezza nella redazione di un programma politico, a stretto contatto con il candidato o il partito.

Entrando nel merito della strategia è importante che sia consapevole dell'influenza del l'imprinting sull'elettorato. Dovrà cercare di curare la reputazione del candidato, lanciare messaggi chiari, precisi e stare attento al livello di qualità associato a: dichiarazioni, comunicazioni, interviste, attività promozionali. Il primo impatto infatti sarà quello di riferimento per il suo elettorato.

È importante poi liberarsi dai propri imprinting. Capire fino a che punto le proprie scelte di comunicazione politica sono condizionate da quelle altrui e, paragonandole all'impatto che avrebbe un'operazione di marketing sul mercato, decidere quale scelta conviene effettuare per ottenere la risposta adeguata alle proprie necessità e non condizionata da giudizi relativi. Offrire il proprio prezzo e misurarlo solo con la risposta che si vuole ottenere.

Una volta raggiunte le consapevolezze sul relativismo
delle scelte comunicative e programmatiche, è possibile gettare le basi per un governo fatto di partiti realmente liberi.

Approfondimenti: Dan Ariely, Predictably Irrational, ed. Harper Collins