giovedì 11 ottobre 2012

Lo scherzo del calabrone

Aveva indossato un vestito acquistato per l’occasione. Elegante e casto. Classico per evitare di cadere nel banale e soprattutto per non insinuare nella mente di una folla gessata, composta ed erudita, pensieri inadeguati.
Quando la signorina Filomena Celletti, impiegata comunale, salì sul palchetto ricoperto dalla soffice tappezzeria blu della Sala Valadier stretta nel suo tailleur grigio, i capelli legati in un classico chignon, il mormorio si fece più lieve. S’interruppe completamente quando le labbra ostentatamente rosse di lei che spiccavano sul volto incipriato, si prepararono all’emissione vocale. Quel che ne venne fuori fu un grottesco suono in falsetto che, interpretando le esatte parole scritte su uno spartito sistemato sul leggìo, annunciava l’imminente esibizione di tal Fosco Rettondini, violoncellista di fama internazionale, venuto ad esibirsi sotto il Tempio di Giove grazie all’intercessione del professor Goffredo Mantovani, noto economista nonché docente universitario appassionato di musica classica e influente in diversi ambienti dell’alta società.
Seguì un applauso formale e ordinato, significante un rispettoso e compiaciuto omaggio al noto violoncellista, il quale serbava la severa consapevolezza che quella che sarebbe seguita sarebbe stata un’esibizione perfetta. Rettondini quasi non riusciva a muoversi nel suo frac inamidato. Era abituato a platee molto più numerose nelle sale da concerto di tutta Europa. Ma sapeva benissimo che ogni sua performance equivaleva ad un esame. Se il pubblico fosse rimasto soddisfatto sarebbe stata solo un’ulteriore conferma della professionalità e della bravura acquisita con il talento nutrito da anni di conservatorio e  uno studio personale al limite della perfezione.
Il guaio era se fosse andata male. Un errore, il minimo percettibile, avrebbe avuto eco in tutti gli ambienti internazionali. E gli sarebbe costato caro. Per questo, e per quell’infantile emozione che ancora lo sorprendeva ogniqualvolta doveva esibirsi, Rettondini era teso  come una corda di violino mentre saliva sul palco. Si prese tutto il tempo per sistemare davanti a sé lo strumento e poggiarlo sulla spalla. In quel momento silenzioso rotto solo dai passi vellutati dell’artista e dagli ultimi assestamenti del pubblico, l’austera platea poteva gustarsi compiaciuta l’attesa, calcolata nel tempo giusto per non essere né poca né troppa.
Il musicista raccolse l’arco e con un ampio gesto disegnò in aria un’impercettibile premessa sonora al concerto. Poi furono le note a tagliare l’aria. Iniziò il Preludio di Bach, suite n.1 per violoncello. Imponente e vibrante. Seguirono Beethoven e Debussy ma il finale fu affidato al Volo del calabrone di Korsakov. L’energia che Rettondini mise nell’esecuzione dell’ultimo brano lo fece diventare paonazzo. Sul suo volto rotondo e appena rasato iniziarono a scivolare abbondanti gocce di sudore che gli s’infilarono nella strozzatura del collo di camicia.
Era completamente assorto nell’esecuzione che durò poco più di un minuto quando successe l’irreparabile.
L’animaletto ronzante che l’esecutore aveva fatto svolazzare per la sala grazie alle superbe vibrazioni delle corde del suo violoncello era lì per posarsi e il pubblico era già pronto a far partire un applauso scrosciante. Pur sempre composto ma carico di soddisfazione. Il professor Mantovani pregustava, gonfio d’orgoglio e il sorriso compiaciuto celato sotto i baffi, i complimenti dei suoi nobili amici e cultori delle belle arti. E sua moglie faceva altrettanto pensando alle lodi delle profumate signore ingioiellate che sedevano accanto ai rispettivi austeri mariti. Il sindaco, che non ne capiva molto, aveva tuttavia colto nell’espressione degli ospiti l’approvazione attesa. E a mente aveva iniziato a recitare le prime frasi del discorso di ringraziamento che avrebbe tenuto di lì a poco. Glielo aveva scritto il suo portavoce, considerando che il suo vocabolario era una miniera di imprecazioni variopinte di cui faceva maggior sfoggio nel corso delle sedute consiliari. Era però carente di registri alti.
Perfino il buffet imbandito di appetitose prelibatezze e vini ricercati pareva uscire dalla Treccani ed era pronto ad accogliere gli arzilli rappresentanti del più nobile antiquariato nazionale.
Ma quando il calabrone finì la sua corsa la platea non ebbe il tempo di esprimere la sua contentezza. Rettondini era talmente madido, gonfio e teso per lo sforzo appena compiuto che non riuscì a controllare la risposta più naturale e inequivocabile che il suo corpo si sentì libero di dare alla fatica.
L’enorme e lungo fragore prodotto dalla vibrazione della carne sottoposta ad una forte insufflazione non lasciò alcun dubbio negli astanti che sapevano ben distinguere il tocco del violoncello da quello dello strumento che avevano appena udito.
Un gelido silenzio calò in sala.
Rettondini, completamente solo sul palco, restò pietrificato.
Il microfono aveva per giunta accentuato il rumore che le sue membra avevano prodotto.   Il sangue del musicista si era fermato. La platea lo fissava sconcertata. Non c’era via di scampo. Quel lasso interminabile di tempo durò una decina di secondi nei quali Mantovani riuscì a sgattaiolare fuori dall’auditorium. E il sindaco lo seguì.
Fu la signorina Celletti a prendere in mano la situazione. Si fece coraggio, salì sul palchetto e afferrò il microfono: «Il maestro Fosco Rettondini ha eseguito per noi il Volo del calabrone, per violoncello e... trombone».
E allora qualcosa di imprevedibile accadde nelle viscere degli invitati. Sul volto di ognuno iniziò a disegnarsi un sottile sorriso, a qualcuno venne fuori un ghigno finché tutti si lasciarono andare ad una enorme, irrefrenabile, fragorosa e distensiva risata.