giovedì 30 settembre 2010

Il Circo 2. Maometto a “Napul’è”

Chi l’avrebbe mai detto che nel mezzo della mia esistenza occidentale, in una provincia italianissima, mi sarei trovata faccia a faccia con Maometto. In una moschea una giornalista con un velo sulla testa, i piedi scalzi, a conoscere un Islam fuso nella società consumista.
La festa della comunità islamica a Fondi è al ristorante pizzeria “Napul’è”. Bella contraddizione, di quelle che ti fanno riflettere sulla mescolanza delle culture. La pizza, il forno a legna, i profumi di basilico, pomodoro, mozzarella sulla pasta di pane croccante che si portano dietro tutta la cultura partenopea, con il Dio dei musulmani.
Sono un po’ in ritardo, catapultata dalla redazione a quest’incontro di culture. All’esterno trovo i colleghi che mi presentano un ragazzo dalla pelle ramata. Mi avvicino, sfoggio un sorriso che è un omaggio alla bella iniziativa mentre sprigiono curiosità da tutti i pori, pronta ad offrire il mio rispetto. Mi parte la mano, diretta, sicura, orgogliosa: «Piacere». 
E ho già sbagliato.
Per fortuna che il tipo non si formalizza, lui è più occidentale di me. Ma mi mette in guardia. «Dentro c’è l’Imam venuto dall’Egitto a conoscere la nostra comunità. Non dargli la mano, i musulmani non toccano donne che non siano le loro mogli». Menomale che mi ha avvisato. Io mi sarei lanciata in un occidentalissimo saluto reverenziale credendo di far bella figura con una sana e salda stretta di mano. 
L’incontro è solare. Passo attraverso un buffet imbandito di colorate pietanze arabe, già dimezzate dal passaggio degli ospiti. Scorro lo sguardo sui tavoli stremati dalla foga di bocche e mani affamate, dove giacciono sparsi resti di tracotanti pietanze, polli interi ingozzati di uova sode, peperoni, melanzane, cous cous e via dicendo. Uno spreco, penso. E vado avanti.
È l’ora del dessert. Vassoi ricolmi di forme geometriche laccate, stucchevolmente zuccherate, dorate al punto da sembrare il tinta con l’Imam. Ma spicca qualcosa di familiare: le bombe alla crema. 
In fondo alla sala, a capotavola, mi appare l’Imam nella sua tunica orlata di riflessi oro, il cappellino sul capo. Appena mi vede mi omaggia con un delicato balzo all’ in piedi. Eh no, la mano non gliela porgo. Ma sfodero un sorriso a 36 denti che lui ricambia decorando il momento con un movimento ritmico e incessante della testa come fosse un sì - un segno di accoglienza suppongo - e pronuncia frasi cordiali come fossero preghiere. Magari è così che si rende omaggio alle donne. 
Ho l’onore di sedermi accanto a lui, sto attenta a non sfiorarlo dovesse pensar male.
Mi accingo a sfamarmi quando tutti improvvisamente si avviano verso l’uscita. Vanno a visitare la moschea, allestita alla bell’e meglio in una garage di fronte alla pizzeria “Napul’è”. «Puoi restare qui» mi dicono. «Mangia pure con calma, non sei obbligata a venire». Eh no. Io qua ci sono venuta e mi voglio vivere fino infondo l’esperienza islamica. Mi porgono un bicchiere colmo. Non ho idea di cosa contenga, il colore mi fa pensare al vino. Vabbè io butto giù. 
È tè. Caldo.
Mi sta bene. Certo non mi sarebbe mai venuto in mente in altre occasioni di abbinare il tè ai peperoni. Ma stasera ho fatto un patto con me stessa e la sete di conoscenza supera ogni cliché. 
Mi incammino per la moschea, mi faccio largo tra la folla, voglio essere parte di questa esperienza. 
«Che devo fare?» chiedo prima di visitare il luogo di culto. Sento di entrare in un posto che non è casa mia e lo faccio con rispetto. Mi risponde un uomo: «Prima togli le scarpe». Poi mi guarda, vede che ho un foulard sulle spalle. E mi fa: «È meglio se quello lo metti sulla testa». Sono una donna. Per noi occidentali potrebbe essere un affronto. Coprirsi per non farsi vedere, quello vuol dire. Così come col tatto, anche la vista dev’essere esclusiva dei mariti. «Ecco, adesso sei più bella» mi dice. E io che credevo che con quel gesto l’avrei nascosta la mia bellezza. Invece una donna, col capo coperto è più affascinante. 
Non è che lo condivida. Ma loro ci credono. E voglio rispettare anche questo. Mi sta bene se sta bene a loro, alle loro donne. Non mi sta bene quando è un’imposizione. E quando c’è di mezzo la violenza. Che una donna musulmana si senta libera col velo piuttosto che senza può anche essere una stronzata e sicuramente non è sempre così. Ma abbiamo idea di quante pressioni psicologiche - per non parlare di violenze - le donne occidentali siano costrette a sopportare dai loro mariti? Cambia qualcosa? Non credo. 
Fatta questa riflessione accedo alla moschea. Col foulard sulla testa. Tolgo le scarpe e le poggio per terra assieme ad altre decine. Respiro senza pensarci. Rischio di morire asfissiata. E non vale, fino a poco fa ero quella che: il rispetto per l’altra cultura, la sete di conoscenza, e tutta quella roba. Così mi becco pure la sniffata di scarpe. E sto zitta.
Finalmente entro nel luogo di culto. C’è un calendario elettronico che dice a che ora, ogni giorno, i musulmani devono rivolgersi alla mecca. «Prima di pregare - spiega l’Imam trapiantato a Fondi - ci purifichiamo. Laviamo la testa, le orecchie e i piedi». E menomale, mi dico. Ma vabbè, è la natura. E il mio patto. Inutile lamentarsi. 
«Scommetto che tu non preghi mai» dice una voce. Ce l’ha con me. Non è un musulmano. È un italiano che probabilmente ha dei sensi di colpa nei confronti del suo Dio. «Io faccio le mie preghiere» rispondo. «Ognuno ha le sue». 
Ma insomma. Sono in una moschea e sono una donna italiana. Non mi pare però di aver manifestato le mie opinioni religiose, né il mio credo. Potrei anche essere buddista. O atea. Lui che ne sa. Se prego, se non prego. Potrei anche non voler pregare. E non sentirmi nemmeno in colpa. 
Ma è lì che mi cadono le braccia. Davanti a quell’affermazione penso che gli occidentali siano talmente frustrati che non potranno mai essere pronti al confronto vero e maturo con altre culture.
Non importa. Sorrido e ascolto. Mi immergo nel mondo islamico in un garage del centro  città davanti alla pizzeria “Napul’è”. Mi offrono un cd contenente preghiere e una presentazione per conoscere l’Islam. Accetto. Porto a casa anche un omaggio: un portaincenso con incensi profumati. Fiera di aver conosciuto un altro pezzo di Dio.