martedì 31 agosto 2010

Il Circo 1. Gesù.

Vivo in un circo. No, non quello con le tende, le tigri, i leoni, gli acrobati. Quelli sono artisti. Tanto di cappello. Ma inizio a dubitare che il mondo sia tutto un grande circo e che Alessandro Baricco con il suo Barnum forse non ha avuto poi tanto torto. Il mio ultimo fine settimana me lo ha confermato. Moira, la grande, non ha più la sua antica verve ma di talenti in giro ce ne sono.

Uno.
Non credo di avere avuto un’allucinazione, giuro che se avessi avuto con me la telecamera mi sarei fermata ad intervistarlo. Venerdì percorro l’Appia con la mia macchina, il mio caro Doblò grigio che per i drammatici eventi che vi narrerò tra poco oggi non è più con me. Corrono ai miei lati le verdi sentinelle dell’antica strada romana che seppur arrecano sollievo agli automobilisti assolati qualche volta hanno messo un deciso e tragico punto finale sulle vite dei passanti per vendicarsi, forse, delle quantità di ossigeno chimico che sono costrette a respirare. Davanti a me una visione. Gesù. Cristo che porta una croce. Dico bè, col caldo si sarà tagliato i capelli. E invece più mi avvicino e più capisco che è un uomo, pelato. Uno come tanti che però se ne va in giro lungo l’Appia per la sua via Crucis, con sulle spalle una enorme croce di legno. Come se fosse normale.
Due.
Il giorno seguente, sabato, altro circo. Finisco il lavoro in fretta perché la sera ho uno spettacolo. Eh già, ho anch’io la mia parte nel circo. Ma mi ci metto consapevolmente. Recito, con una compagnia teatrale. Abito nero, neutro, per dare spazio a diversi personaggi che si trasformeranno sketch dopo sketch al fianco dei miei colleghi Antonio Mehiel e Massimo Lerose. Scaletta pronta, trucco e si parte. Sono un po’ in anticipo, è vero, ma considerato il traffico del sabato pomeriggio sulla Flacca, meglio mettersi al sicuro. Direzione: Terracina per prelevare Massimo e poi Sabaudia dove ci aspetta Antonio per l’esibizione.
Quello che mi aspetta sulla Flacca, però è inquietante. Il contro esodo del sabato pomeriggio. Fine della settimana di Ferragosto. Che uno dovrebbe essere rilassato dopo una vacanza al mare, magari un po’ dispiaciuto per le ferie finite. Però... E invece la fila di auto che procede a singhiozzo a qualche chilometro dal semaforo di Tumulito sembra una mandria in cattività. 
Prima. Leggero colpo sull’acceleratore. Freno. 
Prima. Acceleratore. Freno. 
Prima. Accel... 
Un muro davanti. Non ce la faccio a frenare, scarto sulla destra ma non posso evitare il Suv che mi precede. Crash. Si accartocciano le lamiere del mio Doblò, il radiatore è andato. Il Suv perde il fanale posteriore destro e si ritrova un tratto artisticamente perfetto lungo tutta la fiancata che manco Giotto. 
Oddio, che ho fatto. 
Resto immobile qualche secondo cercando di convincermi che sto ancora viaggiando allegramente incontro alla serata teatrale. Ma no. Mi giro. Per vedere chi è sul Suv e se sta bene. Incredibile: è vuota. 
Che ho fatto.
La colonna si è fermata, i passanti si sono accalcati attorno ad un uomo che è, acrobaticamente e secondo meccanismi della dinamica tutt’oggi rimasti misteriosi, catapultato fuori dall’abitacolo. Un colpo al cuore. 
Che avrò fatto.
Pare una tragedia. E invece è il circo. 
Quello recita, nel suo bel personaggio costruito sui tipici tratti del romanaccio burino che rientra dalle ferie, frustrato pure dal pensiero del lunedì al lavoro. Non gli pare vero di poter esprimere in tutto il suo splendore le sue doti istrioniche. Io sul palco ci devo salire, ma più tardi. E devo far ridere. Lui no. Fa piangere. 
Ambulanza. pronto soccorso. Tac. Manco un graffio. 
Il cugino me lo aveva detto: «È un rimbambito, lascia stare». 
E io ho rischiato il crepacuore. 
Ma fortuna che ci sono gli amici. Massimo e Federica mi hanno prelevata dal set stradale e ci siamo diretti verso Sabaudia. È tardi. Ma lo spettacolo si può fare lo stesso.
Antonio aspetta fuori la Baia, è già in costume. No, non andiamo a fare il bagno. Roba da teatranti. Ché dove finisce il palco e dove inizia la vita non lo sai.
Tre.
Alla Baia è buio. Non c’è can che abbaia. Ma Antonio ride. E rido pure io. Gli amici. 
Ci immettiamo sulla litoranea per raggiungere l’altro lato della città. Ancora buio. Ma i fari delle macchine sfilano. Altra visione. Stavolta non sono sola. Ho i testimoni. 
C’è di nuovo: Gesù. Non lo stesso. Un altro. Magro, capello mediamente lungo, è in posizione di meditazione. Gambe incrociate, seduto sul ciglio della strada, proprio sopra la linea bianca a destra, guarda nella nostra direzione, illuminato sì ma dai fari dell’auto di Federica. Sarà un segno? Forse più un segnale. Quello del cellulare. Gesù a torso nudo, alle nove di sera, sulla litoranea di Sabaudia, sul ciglio della strada, medita e telefona. 
Quattro.
Dire che siamo pronti non è proprio esatto. Non abbiamo praticamente provato nulla. Ma chissenefrega, io dopo una giornata così mi voglio divertire. Sono ancora sotto shock quando il “Terno Secco” fa il suo ingresso trionfale nel giardino di Dino Catalano. Ma rido. Sono contenta. Sana, salva e sto per andare in scena. Mi butto sul buffet. Non restano che salatini e vino. Massì affogo le mie angosce nell’alcol. Un paio di bicchieri e via. Senza freni. Stavolta, però, in senso metaforico. Ed eccomi di nuovo in scena. No, non sul palco di In giarDino. È ancora il circo. A questo punto sono pronta a tutto. Anche se in verità credo che per oggi possa bastare. Ed è quello l’errore. In uno stato di ebbrezza emotivo-alcolica mi aggiro tra le tele in esposizione quando mi si piazza davanti un marziano. E mi dice: «Ciao Irene!» Penso: Oddio è Gesù che mi perseguita. Stavolta un po’ calvo, e c’ha pure un leggero riporto. La mia faccia inebetita davanti ad un perfetto sconosciuto è leggibile quanto un testo in Times con dimensione 80. «Sono Manuel». Un fascio di luce illumina il momento fino a collegare una serie di eventi, come i puntini della settimana enigmistica, a quel Manuel che fino a quel giorno per me era solo un contatto su facebook. 
Si è improvvisamente materializzato davanti a me, come se mancasse qualcosa a coronare la giornata. I contatti tra noi erano stati sporadici e limitati ad una conoscenza comune. Ma negli ultimi dieci giorni lui aveva deciso che dovevamo incontrarci. Per un caffè, diceva. Avrebbe fatto il viaggio da Roma a Sperlonga. Centoventi chilometri per un caffè. Io questa cosa non la capivo. Ma il problema non si poneva visto che di questi tempi non ce l’ho nemmeno il tempo di un caffè. Così avevo lasciato cadere. Lui insisteva. Io no. 
Sabato pomeriggio pubblico la notizia dell’esibizione del Terno Secco a In giarDino. Prima di mettermi in coda sulla Flacca. Prima del crash e dell’acrobata. Quando, per intenderci, il mio Doblò era ancora, sigh, intatto. E comunque in un tempo poco ragionevole per decidere di mettersi in viaggio da Roma a Sabaudia. Lui lo ha fatto. Per amore? Ma se nemmeno mi conosce? «Probabilmente pensa che sei addotta (cioè posseduta da un extraterrestre, ndr) e vuole salvarti» mi suggerisce Antonio. «Gli hai dato modo di pensarlo?» Oddio, pensavo fosse Gesù a perseguitarmi e invece era un alieno. Vestito da Gesù. Ma siamo al circo e non sai mai cosa aspettarti. «Io addotta?» A questo punto sono quasi certa di venire da un altro pianeta ma non credo di voler essere salvata. Anzi, quasi quasi ci torno. 
Mi salva il teatro. L’esibizione è esilarante. Ubriachi, emozionati, carichi di esperienze turbolente, di scosse che corrono lungo la spina dorsale, di luce negli occhi e sorriso nel cuore (un po’ alcolico ma vero). In scena ci siamo arrivati. E sfoderiamo il nostro meglio. Io, Antonio e Massimo. Terno Secco. Senza un quattrino. Però abbiamo vinto.




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