lunedì 4 aprile 2016

Quando un'insufficienza diventa valore. Avevo 5 a storia: oggi pubblico un romanzo storico.

A storia avevo la media del 5. E per un soffio non sono mai stata rimandata a settembre.
Qualche anno dopo mi sono innamorata di epoche e personaggi passati e ho scritto un romanzo. Storico.
Sarà stata una rivincita sul liceo? Può darsi che sia anche così, ma non è stato per questo che ho scritto Amyclae.
Mi sono chiesta spesso come sia stato possibile che una come me - che alle superiori i paragrafi di storia ci provava anche (qualche volta) a studiarli, ma finiva inevitabilmente a trascorrere ore facendo ghirigori sul lato del testo - abbia scritto un romanzo storico.
E in qualche modo, una spiegazione me la sono data.

Forse non tutti gli studenti possono innamorarsi della storia. Ma certamente gran parte di coloro che potrebbero appassionarvisi non potranno mai scoprirlo davanti ad un testo scolastico, con il linguaggio e il metodo di insegnamento che tutt'oggi viene usato dagli insegnanti.
Per me era terribilmente noioso. Non trovavo nulla di interessante nell'elencare i fatti, le cause e gli effetti delle azioni degli uomini o degli eventi, date, modificazione degli Stati, ecc.
L'effetto che avevano su di me era terribile. Come prendere un sonnifero e obbligarmi a dover restare sveglia portando sulle spalle una trave di ferro. Ecco. Questa è la sensazione esatta: pesantezza e sonno. Una fatica enorme che tra l'altro portava a zero risultati. Naturalmente non ricordavo nulla di ciò che veniva spiegato in classe o che studiavo sui libri. Per cui l'enorme fatica che facevo non veniva nemmeno compensata dalla soddisfazione di portare a casa un bel voto.
Qualche anno dopo però ho scoperto qualcosa.
Che sembrava avere il fascino di una favola. Per esempio quella dell'antica e leggendaria città di Amyclae. 
E ho deciso che volevo saperne di più. Volevo conoscere la storia di coloro che forse l'avevano costruita e vissuta. Di quelli che ne avevano scritto, fungendo da testimoni per noi.
Mi sono innamorata delle vite degli uomini che hanno attraversato gli anni passati, delle loro passioni, delle loro guerre, dei loro costumi.
Li ho osservati da vicino. Li ho immaginati vivi, combattere per i loro ideali, ribellarsi alle convenzioni del loro tempo. Perché loro sono quelli che hanno fatto lo storia. 
Sono andata ad esplorare le epoche che mi interessavano, ho scavato nelle vite, nelle abitudini quotidiane degli antenati. Ho letto biografie, romanzi, saggi monografici con una voracità impressionante.
Così, ho capito. Che le insufficienze a scuola non contano nulla. Non decidono cosa è bene o male per un ragazzo. Non devono influenzare le scelte degli studenti. Perché magari hanno solo bisogno di un metodo diverso di insegnamento. Che faccia scoprire loro davvero a cosa appassionarsi.
Eppure ancora oggi molti giovani si sentono condannati da un brutto voto. 
Insegnanti e genitori insegnano loro che andare bene a scuola significa essere bravi e accettati socialmente. 
Stronzate. 
Assecondare le proprie passioni, vivere, essere curiosi, questo rende maturi. 
Nessuno mai dovrebbe permettersi di giudicare insufficiente uno studente perché non ha studiato. Dovrebbe piuttosto chiedersi cosa lo appassiona e aiutarlo a coltivare la sua strada nel modo più adatto ai suoi bisogni. 
La scuola non può essere uguale per tutti. Ogni ragazzo ha bisogno di essere giudicato nella sua unicità. 
Questa è la differenza tra uguaglianza ed equità. 
Io ci sono arrivata tardi, ma sono l'esempio che le insufficienze scolastiche non hanno alcun potere sul nostro futuro, su ciò che desideriamo e che possiamo diventare.



martedì 6 gennaio 2015

La tomba di Ulisse è al Circeo. Ma nessuno l'ha ancora trovata




E se il corpo di Ulisse si trovasse al Circeo? Se l’eroe omerico fosse stato sepolto da Circe, la maga dalla quale - durante il suo passaggio lungo la costa pontina - aveva avuto un figlio, Telègono? Sarebbe una grande rivelazione. Tanto clamorosa quanto la scoperta del teschio neandertaliano a Grotta Guattari. Solo che di Ulisse non esiste nemmeno un brandello di ossa. Toccherebbe stanare tutte le grotte del Circeo. Magari aspettare la costruzione di un nuovo albergo. In ogni modo è dura. Sperare di trovare i resti di Ulisse al Circeo è quasi un’utopia. Ma mai dire mai. Soprattutto se si parla di ricerca storica. Quanto alle fonti, quelle ci sono. Letterarie, come quelle che parlano di Amyclae, la città fondata in un’area non bene individuata nel triangolo tra Terracina, Fondi e Sperlonga che fu distrutta dai serpenti (“Amyclae a serpentibus deletae” diceva Plinio). Ci vuoi credere? Io sì. Forse pecco di “localismo” (come dice il buon prof. Antonio Di Fazio che di archeologia e storia ne ha giustamente da vendere), una cosa che, mi pare di aver capito, ha a che fare con un pizzico di campanilismo. Che non guasta mai. Però. Se a me non viene il dubbio nessuno si mette a cercare. E nessuno troverà nulla.

Dicevamo. Dante, nel XXVI canto dell’Inferno aveva fatto finire le avventure del grande eroe omerico oltre le colonne d’Ercole, dov’era vietato addentrarsi, risucchiato con i suoi uomini, dal mare in tempesta. Secondo la storia raccontata da Omero invece Ulisse perì per mano del figlio che non lo aveva riconosciuto, a Itaca. Ma che fine fece il suo corpo? Alcuni miti sostengono che la dea Minerva ordinò a Telègono di riportare il padre nella terra di Circe. Ed eccoci qua.
Di questa ipotesi è convinta la direttrice del museo archeologico nazionale di Sperlonga, Marisa de’ Spagnolis che ricostruendo la storia di Tiberio, l’imperatore che nella grotta costiera si fece una sontuosa villa dedicata alle avventure del navigatore greco, ha ripercorso anche le tracce dell’eroe omerico. Che, tra l’altro, pare fosse pure un suo lontano avo (non della de’ Spagnolis, che pure ha nel sangue astuzia, coraggio e curiosità, ma di Tiberio).
“Com’è, come non è” la teoria che vedrebbe le ossa di Ulisse sepolte in qualche anfratto del monte Circeo resta salda su alcune fonti. Quelle, secondo la de’ Spagnolis, che si rifanno ai racconti mitologici che nel periodo augusteo erano stati scritti e diffusi con estrema accuratezza. Nessuno poteva contraddirle. Per la gente dell’epoca quella era la sacrosanta verità. Ma che quei racconti fossero davvero corrispondenti ad una realtà storica oggi poco importa. 
«Alle leggende - dichiara l’archeologa - c’è chi ci crede e chi no. Ma se non se ne tiene conto la ricerca si ferma». 
Dunque, noi andiamo avanti. Punto primo: le fonti ci sono. E parlano chiaro.
Il resto è quello che dicono: una ricostruzione degli eventi a metà tra il mito e la storia.
In una delle sue liete soste presso la maga Circe nel corso del suo lungo viaggio per mare, Ulisse generò un figlio, Telègono. Ma il padre tornò ad Itaca e quel figlio non lo vide mai più. Finché un giorno Telègono decise di andare a cercarlo. Circe gli disse che si trovava ad Itaca così lui organizzò la spedizione, che tanto somigliava al lungo viaggio del padre. Ma Telègono dopo giorni e giorni di viaggio naufragò con la sua ciurma. Finì su un’isola che in realtà era Itaca, ma lui, un po’ stordito dal viaggio e dal naufragio, un po’ perché non si era dotato evidentemente di grandi esperti di carte nautiche, non lo sapeva. Dal canto suo Ulisse, che non si aspettava certo di dover accogliere quel giorno il proprio figlio sull’isola, pensò ad un attacco nemico e si avventò contro i naufraghi. Nella battaglia fu proprio lui ad avere la peggio. Telègono uccise il padre con una lancia intinta nel veleno di una razza marina. E così si realizzò la profezia secondo cui Ulisse sarebbe morto per mano del figlio e del mare. A quel punto, oracolo per oracolo, intervenne la dea Minerva. Che, rivolgendosi a Telègono, disse: «Prendi il corpo di tuo padre e riportalo da Circe che lo seppellirà». E così, visti i precedenti, lui obbedì. Prese il corpo del padre, lo caricò sulla sua barca e lo portò al Circeo, dove, secondo la leggenda riportata dagli autori dell’epoca augustea, fu sepolto. Alla povera Penelope nemmeno la consolazione di poterlo avere da morto, suo marito. Ma tant’è. Quando una donna nasce Penelope muore Penelope. È destino. Fatto sta che secondo questa ricostruzione il corpo di Ulisse sarebbe dunque finito al Circeo. E se la famosa maga un po’ ci teneva a quell’amante, nonché padre di suo figlio (e che per strani avvenimenti da feuilleton che spiegheremo altrove, era anche suo suocero) c’è da credere che gli abbia fatto una signora tomba. Tutto torna dunque. Il problema resta uno e fondamentale: dove stanno i resti di Ulisse?

venerdì 31 ottobre 2014

Amyclae: storia o leggenda?


«Attente ai serpenti!»
Calpesto la terra brulla tra sassi che s’impongono da un passato troppo lontano e sento il cigolìo di carriole, l’affossarsi secco delle pale, le voci di uomini e donne che scavano e discutono, si chiamano, in una lingua che non conosco e che, eppure, deve essere nel mio dna. Ne sarei sicura se quelle pietre potessero parlare. Se potessero raccontarmi degli uomini che le hanno piazzate lì, col sudore, la fatica. Per costruire un tempio, dedicato ad Apollo, in cima alla collina di Haghia Kyriaki nei pressi di una cittadina a sud di Sparta. Che si chiama Amykles. Come quella Amyclae di cui narrano alcuni scrittori latini e che doveva trovarsi sulla costa pontina.
“Et ubi fuere Amyclae a serpentibus deletae”.
Ho sentito qualcosa. Nel confuso rumore del gruppo di archeologi intenti a scavare, la mia mente ha istintivamente selezionato una frase: «Attente ai serpenti». Non è che abbia subito collegato. Il misterioso meccanismo dei miei neuroni ci ha messo qualche secondo a fare clic. Poi ha spalancato una porta sulla storia.
Lo aveva scritto Plinio nella sua Naturalis Historia che Amyclae era stata distrutta dai serpenti.
Stavros Vlizos, vice direttore degli scavi al tempio di Apollo amiclano, a sud di Sparta, nella moderna frazione di Amykles, ancora non lo sa. Ma ha detto una cosa importante.
E ce l’aveva proprio con me che pochi minuti prima ero stata catapultata senza alcuna premeditazione in quel posto di cui non sapevo nemmeno l’esistenza. E mi ero presentata a lui, come a tutti quelli che incontravo, così: «Salve, io vengo dall’Amyclae italiana». Lui aveva sbarrato gli occhi. Pietrificato e allo stesso tempo agitato nel profondo delle viscere da una di quelle emozioni folli che travolgono solo chi è talmente appassionato del suo lavoro al punto da inebriarsi per un’ epifania apparentemente insignificante. Era come se davanti a lui si fosse personificato il passato. L’antichità che fino ad un attimo prima aveva nella sua mente uno schema preciso: gli spartani avevano conquistato l’oriente, non si erano mai spostati ad occidente. Città col nome di Amyclae esistono tutt’oggi ma ad occidente no, non c’erano. E invece io ero la prova vivente: lì davanti a lui. Fran. Deve aver traballato. Un attimo. Poi è passato all’incredulità.
Ad Amykles, quella greca, io ci sono voluta andare. Per vedere se potevo scoprire qualcosa di più su quella civiltà di cui alcuni scrittori latini hanno narrato l’esistenza ma che è rimasta stampata solo nella leggenda.
Qualcosa mi dice che nelle mie vene ci sono gocce amiclane. Di quel popolo greco che in un’epoca imprecisata sbarcò sulla costa tra Sperlonga e Terracina e fondò una città che si chiamava Amyclae. Secondo alcuni storici moderni gli amiclani nel VI secolo a.C. dovevano essere già in quel posto nel Lazio. Nello stesso momento in cui la Grecia scopriva tutta la sua forza e il suo splendore. Poco prima, forse, o subito dopo, che Sparta decidesse di rompere con Atene.
«Taranto era una colonia di Sparta e possiede un tempio di Apollo. È l’unica connessione che io conosca degli amiclani con l’Italia». Dopo lo shock iniziale Stavros vuol fare chiarezza. E ci racconta quello che sa. «In un primo momento, ad Amykles c’era il culto di Giacinto, un eroe locale. Poi con l’arrivo dei Dori il popolo ha iniziato a venerare Apollo». Il che significa che Sparta voleva essere il simbolo del potere, forse appunto dopo la rottura con Atene.
Gli archeologi non sono riusciti ancora a datare la costruzione del tempio di Apollo amiclano. Quel che si sa è che, stranamente, fu progettato da un ingegnere chiamato dall’oriente, Baticle di Magnesia, uno sconosciuto praticamente. Perché proprio lui? «Questo non lo sappiamo. Forse per ragioni diplomatiche, forse per conoscenze, insomma quello che oggi chiameremmo una raccomandazione».
Ma risalire alla costruzione del santuario è importante anche per la nostra Amyclae, quella pontina.
«Abbiamo individuato un muro di contenimento. E quest’anno abbiamo trovato anche alcune tracce della parte mancante, quella ad ovest. Secondo le mie ipotesi - prosegue Vlizos - ci sono due muri di contenimento. Uno risale circa al 400 a.C. L’altro, quello che sicuramente è stato innalzato insieme al tempio di Apollo, è più antico. Alto sette metri, quanto la statua che ritraeva la divinità, e largo tre, grazie all’utilizzo della stessa roccia naturale, potrebbe risalire al VI secolo a.C.». Dunque all’epoca in cui dovrebbe essere stata fondata l’Amyclae del Lazio.
A un certo punto però Amykles scompare. Forse per l’invidia della vicina Sparta, forse per l’invasione dei Dori o di qualcun altro. Fatto sta che l’antica cittadina della Laconia il cui unico errore potrebbe essere stato quello di mostrare il suo splendore, è stata disintegrata.
«Nessuno ha mai trovato tracce di quel popolo antico» commenta Stavros.
E io resto sbalordita perchè ancora una volta la sua Amikles somiglia alla mia Amyclae.
Nel triangolo tra Sperlonga, Terracina e Fondi non c’è traccia certa di insediamenti che possano collegarsi a quella civiltà che si dice fu fondata da Castore e Polluce e il cui primo re fu il giovane Camerte.
Stavros Vlizos continua a tirar fuori informazioni.
«Agli amiclani era stato imposto di non parlare».
“Qui fuit Ausonidum, et tacitis regnavit Amyclis”. È ancora Plinio. Pure Amyclae regnava in silenzio. “Mihi necesse est loqui, nam scio Amiclas tacendo perisse” riporta Servio. La città che morì tacendo.
C’è qualcosa che non va. O i latini hanno fatto confusione o qualcuno, come fa notare Stavros Vlizos, desiderava appropriarsi della storia e delle leggende dell’Amikles greca.
È possibile che qualcuno abbia fatto confusione. Troppe cose coincidono.
Eppure non è detto che gli amiclani della Laconia una volta cacciati dalla loro terra non siano sbarcati sulle coste del Lazio e abbiano ricostruito la loro stessa civiltà. E che con loro abbiano trasmesso alla gente del posto, gli osci e gli ausoni, la loro storia. Però poi anche da qui Amyclae è sparita. Qualcuno ha parlato pure di un tempio di Apollo costruito lungo la via Appia, tra Fondi e Itri. L’ipotesi potrebbe essere che gli amiclani, cacciati dalla piana o dalla costa di Fondi, abbiano deciso di spostarsi verso l’interno. Ed ecco che a Lenola si parla di un secondo tempio dedicato ad Apollo. Sepolto sotto le rovine della chiesa della Madonna del latte, in cima ad un colle. Come ad Amikles, dove sulle rovine del tempio di Apollo era sorta una cappella cristiana.
Io dico che Amyclae esiste.
Una delegazione di archeologi guidati da Stavros Vlizos, che nella sua vita oltre a supervisionare gli scavi al tempio di Apollo amiclano è assistente al direttore del museo Benaki e insegnate universitario tra Corfù e Patrasso, sta progettando il suo viaggio nella terra di Amyclae in Italia. Una sorta di gemellaggio storico-archeologico nel quale gli esperti ricercatori dell’antica civiltà pontina si confronteranno con quelli della “civiltà madre”. Con la speranza di disegnare finalmente i contorni di una leggenda rimasta avvolta per millenni nel più profondo mistero.
E allora saremo noi a dire: «Attenti ai serpenti!»



Pubblicato su Il Territorio del 18 Novembre 2010

venerdì 10 ottobre 2014

«Hello, I’m from Amyclae in Italy»


Quando la passione ti spinge a fare cose folli. Ad andartene in giro per il mondo a cercare le tue origini.
A me è accaduto. Vivrei mille altre volte ancora quello stesso istante in cui ho attraversato i confini della città da cui più di 20 secoli fa dalla Grecia partirono i làconi per venirsi a costruire un piccolo villaggio proprio qui sotto i miei piedi, dove io ho visto la luce. E che hanno cambiato la storia.
La mia storia.

Guido lungo la strada statale da Skala a Sparta. E più mi avvicino più mi aumenta la palpitazione. È una follia, ma io sono probabilmente l’unica nativa dell’Amyclae italiana a decidere di arrivare fin qui. Che fare? Non lo so. La mia compagna di viaggio, Nina, mi sostiene. Me ne vado in giro a presentarmi alla gente con stampata in faccia un’espressione entusiasta al limite dell’ebetismo: «I’m from Amyclae in Italy». Il risultato è disarmante. Non gliene frega niente a nessuno.

Grazie all’intuito di Nina ci inerpichiamo su una stradina di campagna. Qualcuno la chiama serendipity. Io non so spiegarmi che roba è, ma di certo mi ha portato nel posto giusto: il Tempio di Apollo amiclano. Dove incontro l’archeologo Stavros Vlizos. Che alla mia frase standard risponde con lo stesso entusiamo. Eureka!

Questa è storia.

La mia storia.

venerdì 26 settembre 2014

E se qualcuno l'avesse rubata, Amyclae?

Mi son messa a leggere "Le iene del Circeo" di Antonio Pennacchi.
Che per una che si è lanciata alla ricerca di una civiltà misteriosa (fa molto Indiana Jones e quasi quasi non mi dispiace) è un bel libretto per le istruzioni. Non che sveli il segreto. È un fatto di cultura. Capisci che c'è un altro modo di vedere le cose. Che tutto è possibile. E allora ci credi.
Lui scrive un po' così, una scrittura orale che si fonde con il flusso di coscienza del dopo duemila. Una cosa che ti prende perché sembra che quello stia lì davanti a te a raccontartele le cose, mica dietro le pagine di un libro.

Ma torniamo a noi. E alla folle ricerca di Amyclae. Pennacchi c'entra quando dice una cosa. E cioè che chiunque voglia capire la storia della pianura pontina deve tenere in considerazione che negli anni '30 c'è stata la bonifica. E che Dio solo sa quanta roba è sparita. Reperti, rovine, intere città.

A chi interessava salvare il passato? Nessun archeologo, salvo uno, è mai andato appresso ad un operaio della bonifica. Quell'uno si chiamava Alberto Carlo Blac e grazie a lui qualcosa sappiamo. Ma vuoi mettere se tutti si fossero messi a salvare i pezzi del nostro passato?

«Neanche un cane appresso ai bonificatori, anche se Plinio il Vecchio - e loro che erano archeologi lo dovevano sapere - diceva che già ai suoi tempi c'erano 24 città scomparse, nell'area delle Paludi Pontine: "A Cerceis palus Pomptina est, quem locum XXIV urbium fuisse Mucianus ter consul prodidit". Chissà cosa deve essere venuto fuori, durante gli scavi di bonifica. Ma chi lo saprà mai più?» scrive Pennacchi a pagina 18.

Ecco, noi non lo sapremo mai. E chissà quante volte c'è stata una bonifica, quante volte si è scavato, buttato distrattamente pezzi del nostro dna.

Se Plinio diceva la verità (ma bisogna pure chiedersi se lui stesso aveva basi valide per poterlo affermare) dunque ci sarebbero ben 24 - e non una sola - città sconosciute nel passato della pianura pontina.
Magari è tutta una gran balla. Magari ci s'inventava il mito di città potenti scomparse, insediamenti greci, solo per poter competere politicamente con gli altri territori. Una cosa gli uomini si sonsempre portati dentro: quando vogliono fare i fighi s'inventano di tutto (ma tanto le donne stanno una spanna più in alto e mica si fanno fregare, fanno finta).
Ecco dunque, il gallo che gonfia il petto è uno che cerca il potere - anche politico.

E alla fine torniamo sempre lì: la bilancia è in perfetto equilibrio. Amyclae c'è stata o non c'è stata.

Però grazie al cielo inizio a vedere i fiori. E li raccolgo.
Un altro è quello della direttrice del museo archeologico di Sperlonga, Marisa De' Spagnolis.
Un bel fiore di archeologia e passione.
«Tiriamo fuori l'Ulisse che è in noi: solo così, continuando a cercare troveremo qualcosa» mi ha detto.
E allora io cerco ancora la mia Amyclae.
E pianto fiori sulla mia città.

venerdì 20 dicembre 2013

Emigrati per crisi. Riscoprire l'America un secolo dopo.



Emigrati per crisi. 
Immagino la scritta appesa fuori ad un negozio italiano.  
Ce l'abbiamo nel sangue l'emigrazione, noi italiani. Per inseguire un sogno, per salvare la famiglia, per tornare felici oppure per non tornare più. Un viaggio che a volte faccio è quello nell'archivio della fondazione di Ellis Island, quell'isolotto che dà il benvenuto ai navigatori a New York. All'America. E così scopro che i miei avi hanno creduto in quel sogno e l'hanno vissuto. 
Nel 1899 Stefano Chinappi all'età di 24 anni prese i suoi bagagli e partì da Gaeta (allora chiamata Elena, in onore della regina, in provincia di Caserta). Raggiunta Napoli s'imbarcò sulla Alsatia, nave di fattura scozzese che portava 156 passeggeri in prima classe e 1100 in terza viaggiando a 13 nodi (poco più di 20 km/h). Un viaggio enorme, bestiale. Ma in regola. Quando le giovani e vaste lande americane erano braccia aperte per i disperati. 
Stefano era un ragazzo che non aveva nulla da perdere. Non era sposato, non aveva figli. Forse era fidanzato. Forse era innamorato. Probabilmente qualcuno ha pianto salutandolo sulla porta di casa.
Stefano ha gridato “America!” il 15 maggio del 1899. E dev’essere stato un grido liberatorio. Che in un istante gli ha fatto scordare le pene del passato, il viaggio interminabile, la fatica. E gli ha fatto tornare la speranza. 
Le pratiche di arrivo, la quarantena a Ellis Island e poi via, ad abbracciare l’America. 
Nel 1907 Stefano era tornato in Italia, si era sposato e a 33 anni rifece il viaggio a bordo della Republic, nave a vapore che viaggiava a 16 nodi, in direzione America dove vi arrivò il 23 maggio.
Nel 1903 Antonio Chinappi aveva 12 anni e attraversò l’oceano Atlantico. Anche lui, forse assieme ai genitori, partì da Gaeta. Raggiunse Ellis Island il 16 maggio. Vent’anni dopo tornò in Italia. Probabilmente aveva fatto fortuna ed era tornato per portarsi dietro qualcuno. Per aprire le porte della nuova casa, di una nuova terra, di un futuro sereno per i suoi familiari. O forse aveva solo nostalgia di quella terra che aveva conosciuto da bambino. In ogni modo ripartì a 32 anni per Summerville, dove si era stabilito e aveva trovato moglie. 
Nel 1904 sbarcò a New York Luigi Chinappi. Aveva 62 anni e magari era il nonno del piccolo Antonio. 
Tre anni dopo partirono anche Francesco (18 anni, single) e Cosmo (36 anni, sposato) a bordo della Cretic, una nave inglese che viaggiava a 16 nodi trasportando 260 viaggiatori in prima classe, 250 in seconda e mille in terza. Magari erano fratelli, cugini o comunque erano legati da uno stretto vincolo di parentela e avrebbero provato a costruire insieme il futuro per le loro famiglie. Il sole batteva sulla prua quando i due avvistarono terra. Era il 27 luglio del 1907. E il sogno americano stava solo cominciando.
Nel 1910 un altro Antonio Chinappi salì a bordo della Celtic, una delle più grandi navi nei primi anni del ‘900, dotata di un’ottima seconda classe. Aveva 25 anni ed era single.
Poi ci fu una lunga pausa. Dal 1910 fino al 1920 nessun Chinappi fece la grande traversata. Probabilmente fu anche la guerra a bloccare i viaggi migratori. I giovani d’altronde erano chiamati a servire la patria. E qualcuno addirittura tornò per compiere la missione. 
Uno di questi potrebbe essere Francesco Chinappi, già emigrato diciottenne assieme a Cosmo. C’è la possibilità che rientrato in Italia e sopravvissuto al ’15-’18 tornò a costruire il suo sogno americano. Lo ritroviamo, stavolta sposato, a bordo della “Ferdinando Palasciano”, nave militare tedesca catturata dagli italiani nel 1915, trasformata prima in nave ospedale e poi ceduta alle Ferrovie dello Stato. Salpò da Napoli per raggiungere New York il 3 luglio del 1920.
Infine l’archivio della fondazione di Ellis Island ci dà notizia del viaggio di Erasmo Chinappi, anche lui di origine gaetana. Era già un uomo quando, a 39 anni, insieme a sua moglie salì a bordo della “Dante Alighieri” costruita dalla società Esercizio Bacini di Riva Trigoso nel 1914. Il viaggio dovette essere molto duro poiché la nave attraversò l’oceano in pieno inverno. Ma l’arrivo a Ellis Island fu la nuova primavera. Era il 10 marzo del 1921.

venerdì 22 novembre 2013

Mulini Bianchi e Moulin Rouge sull'Autosole. Fotografia delle relazioni di coppia lungo lo stivale.

Una domenica passata sulla A1. Dal mattino alla sera. Torno da un festival letterario e mi sparo l'Autosole tutta d'un fiato. Da sola. Cosa che non mi è mai acccaduta per cui quel che faccio quando mi capita di fare per la prima volta una cosa da sola è: osservare.
E ne vengono fuori delle belle.
Una considerazione maturata in anni ed anni di osservazione della gente: gli uomini stranieri più sono fighi e più sono accompagnati da donne bruttissime. Ma hanno sul viso stampata la candida felicità del Mulino Bianco.
Cominciamo dall'inizio perché questo viaggio è l'esempio di quello che puoi incontrare, così, a caso, lungo un tratto d'autostrada italiano. E ne è venuta fuori la fotografia delle relazioni di coppia lungo lo stivale.
Il primo incontro degno di nota sono i trans. Due virgolettate signore imbellettate e ben allestite entrano in un bar, prima del casello. Scena dall'esterno. Un ragazzetto in divisa da lavoro osserva me, che son donna, con evidente interesse. Da sottolineare che quello lì avrebbe guardato qualsiasi essere dotato di pertugi con quell'espressione. Ma sul più bello, mentre mi accorgo che sta per proferire parola (e Dio solo sa quale selezione linguistica avrebbe prodotto il suo cervello), ecco che fanno la loro entrata in scena le due virgolettate. Il ragazzetto è ancora concentrato tutto sul suo unico neurone linguistico (gli altri due tre neuroni sono impegnati in un'accesa discussione col testosterone) quando la stanga di 1,90 dotata di mascellone, calze a rete e voce caveronsa gli rivolge un entusiasmante saluto, carico di significato: "Ehi ciao, tesoro!" Che poi il mascellone nemmeno sembrava tanto interessato al ragazzetto. Però quell'intonazione la diceva lunga su una già evidentemente collaudata amicizia. E avanti. I trans entrano nel bar e il tizio si sgonfia. Smascherato nella sua intimità perde ogni interesse nello sventolare l'ormone. Il mascellone, almeno per me, è stato una manna.
Secondo flash. Autogrill.
Dopo aver esplorato la toilette mi accingo a percorrere il labirintico market, di quelli strategici che qualcosa la devi comprare per forza. Ma va beh a me serve solo il dentifricio. Però uno sguardo qua e là lo butto. Ed ecco che mi si presenta una delle realtà più caratteristiche della società moderna italiana. Due veri "tipi" da commedia dell'arte, ahimé molto ma molto lontanti da quelle nobili figure teatrali che al nostro bel paese han dato pregio. Però tant'è. Questi son quelli che abbiamo oggi.
Sollevo lo sguardo dai cioccolatini e davanti a me si materializzano una bella e prosperosa giovane assieme ad un premurosissimo e rotondo pappone canuto. Il quadro è agghiacciante. Non me lo perdo nemmeno per sogno. I due prendono tutta la scena. Ed è davvero come se fossero entrambi al centro di un palcoscenico, illuminati dalle luci della ribalta si muovono a loro agio, sapendo naturalmente di essere osservati da un vasto pubblico e di questo ancor più compiaciuti.
La bella è abbigliata con opinabile gusto ma sarà facile figurarsela con minigonna inguinale, calze velate, tacchi a spillo e scollatura. Troppo facile. Quel che non sapete è che aveva effettivamente un volto delicato, occhi azzurri ed una folta capigliatura corvina su pelle chiara. Bella come un'opera d'arte sfregiata. Ma che vuoi fare. Son scelte. Lei era tutta catturata dalle autogrilliane raccolte di musica leggera italiana. Di quelle che mettono insieme un po' di tutto e son divise per decenni. In tutto il suo candore esclama al suo accompagnatore: "Guarda! Ci sono gli anni '60. '70, '80, '90... sai che sono tutte belle? vorrei prenderne una!" Sapendo già, subdola, che lui non le avrebbe mai negato un tal dono pensando a ciò che lei poi avrebbe più lietamente corrisposto. "Dai, prendili tutti!" E lei, ancor più subdola: "Ma no, ma dai, tutti?". Ed è qui che credevo fossero arrivati all'apoteosi della pièce in scena all'Autogrill. Quando lui le ha risposto: "Ma sì, prendili tutti. Tanto oggi ci dobbiamo divertire no?". Forse ho capito che è una pièce drammatica. Mi vien da piangere. E allora prendo su il mio dentifricio, mi concedo il mio personale momento di lussuria acquistando una barretta di cioccolato, di quelle buone, e abbandono la platea. Credendo di essermi lasciata alle spalle i due protagonisti. Accendo il motore, mi dirigo verso la pompa di benzina e mi fermo davanti all'erogatore del gasolio. Spengo il motore e mentre aspetto il garzone, mi volto, per dare un'occhiata in giro. In quel preciso istante il muso di una Ferrari testa rossa fa capolino accanto alla mia utilitaria. E si ferma. Non c'è bisogno di aggiungere altro se non che alla guida non c'era il pappone ma: lei. Perché "oggi ci dobbiamo divertire". E con l'ultimo sussulto di tristezza ingrano la prima.
Terza sosta.
Stavolta c'è l'Autogrill quello anni settanta, che scavalca l'autostrada da un lato all'altro sicché trovi gente che va in entrambe le direzioni. E mi gira un po' la testa che se non ci fossero i cartelli ad indicarmi da quale parte dovrò uscire per andare nella mia direzione io avrei sicuramente sbagliato.
Il ristorante è self service. Faccio la mia selezione e mi avvio verso la cassa. Una coppia italiana mi precede. Devo dire bella coppia, sulla quarantina, belli entrambi. Così d'amblé sembrano anche professionalmente affermati. Ma poi all'italiano basta una coda a scatenare gli istinti animali più profondi. Lei dice: "ah hai preso la frutta? la voglio anche io!" Lui risponde, con tono rude: "Stai ferma". Poi silenzio. Non dà spiegazioni perché l'uomo non deve dare spiegazioni. Lei allora cerca di intuire la buona fede: "Ho capito, facciamo a metà con la tua? non ti và tutta?". Lui, con aria quasi scocciata ma pur sempre superiore: "Quando arrivi a poggiare il vassoio ti vai a prendere la frutta. Prima non ti muovere. Hai visto quella che casino ha fatto prima?". Ecco. queste scene sono meravigliose. Meravigliosamente tristi.
Ma arriviamo al clou. Mi siedo davanti al mio arrosto di tacchino stoppaccioso, le patate sfatte e la mia porzione di frutta che con l'inganno ho comprato a 4,50 euro credendo di avere l'offerta speciale ad 1 euro com'era pubblicizzato ovunque ma, "signora - mi dice la cassiera - per la promozione doveva prendere la scodellina piccola". E non c'era scritto da nessuna parte questo. Ma vabbè mando giù i bocconi amari di un pranzo mediocre pagato 17 euro e sto zitta.
Mi guardo intorno. Due anziani mangiano per dovere e non si rivolgono la parola. Lui ha una testa che potrebbe fare i 360°, si guarda attorno come una bestia ferita fuori dal suo habitat naturale. E mentre io azzanno un boccone di tacchino e patate arriva la visione. Un ragazzo bello. Di una bellezza inconsapevole. Bei lineamenti maschili, sotto i quaranta, moro, sicuro ma affatto pieno di sé. Davvero una bella visione. Me lo gusto qualche secondo, lui neanche si guarda attorno, si vede che non cerca nulla fuori del suo mondo. Che sta bene con quello che ha. E quello che ha sono due bellissimi bambini che lo raggiungono seguiti da LEI. La figura femminile che corona il quadro familiare. Si vede subito che non sono italiani. Lei è biondissima, come la bimba. E parlano una lingua che a distanza non distinguo. È proprio un bel momento. Peccato che lei, la donna che lui ama somigli più ad un animale da pascolo che ad un essere umano. Peccato, mi dico. Lui è davvero bello. Lei no. Cose che accadono solo all'estero. In Italia no, non è possibile. Perché nella coppia lei dev'essere bella. È questo che è tristemente importante. Che se non è così dura poco. Ma non perché siano più forti le "Terry de Nicolò". La triste verità è che son gli uomini italiani a cercarle. E quelle si moltiplicano. Altro che Mulino Bianco: l'Italia è il paese del Moulin Rouge!